L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin non è solo uno dei testi cardine della riflessione estetica novecentesca: è anche una lente preziosa per comprendere i percorsi che l'arte contemporanea intraprende quando si confronta con il concetto di remake.
Ma cosa accade quando il remake diventa omaggio, decostruzione, restituzione e rivoluzione culturale? È quello che accade in Remain in Light (2018) di Angélique Kidjo, rilettura totale dell’omonimo album dei Talking Heads del 1980.
Non un semplice tributo, ma un'opera autonoma, che agisce come contrappunto sonoro, politico e spirituale all'originale.
I. L’aura smarrita e ritrovata
Walter Benjamin, nel suo saggio del 1936, introduce il concetto di "aura", descrivendola come ''l’unicità di un’opera d’arte data dalla sua irripetibilità, dalla sua presenza ''hic et nunc''. Con l’avvento della riproduzione tecnica, fotografia, cinema, fonografo, questa aura si dissolve, lasciando spazio a una fruizione democratica, seriale, disincarnata. Ma la riflessione di Benjamin non si ferma alla nostalgia: si apre alla possibilità di nuovi significati, nuovi ruoli sociali per l’arte, nuova politica.
Remain in Light dei Talking Heads è stato, sin dalla sua uscita, un oggetto sonoro profondamente influenzato da questa tensione. Album seminale della new wave americana, ispirato apertamente ai poliritmi africani, alla filosofia dell’afrobeat e alle innovazioni di Fela Kuti (filtrate dalla sensibilità di Brian Eno e dalla lezione del minimalismo), è stato paradossalmente un esercizio di appropriazione, sofisticato, affascinante, ma non del tutto risolto, della cultura musicale africana da parte di musicisti bianchi.
Angélique Kidjo, nel 2018, compie un gesto che è al contempo ricontestualizzazione storica, riappropriazione estetica e restituzione identitaria.
Il suo Remain in Light non è una riproduzione tecnica dell’originale: è un’opera d’arte che riattiva l’aura, restituendo carne, sangue e spirito a ciò che era stato, per quanto genialmente, spogliato della sua radice.
II. Dall’appropriazione all’appropriazione invertita
Quando David Byrne e i Talking Heads pubblicano Remain in Light, dichiarano apertamente di essersi ispirati ai ritmi ipnotici della musica dell’Africa occidentale. L'album nasce in studio attraverso jam collettive, sampling analogico, tecniche di sovraincisione e loop primitivi.
Brian Eno, alla produzione, costruisce una sorta di laboratorio ritmico dove i frammenti sonori si rincorrono in spirali ossessive. Ne esce un capolavoro visionario, che parla di alienazione, guerra, paranoia post-moderna, mescolando funk, dub, ambient, elettronica.
Ma se i Talking Heads guardano all’Africa come a una sorgente estetica, Angélique Kidjo, originaria del Benin, ribalta lo sguardo. Non più l’Africa come musa muta, come paesaggio sonoro da colonizzare, ma come soggetto attivo, politico, culturale. Il suo Remain in Light è un atto di appropriazione invertita: prende l’originale e lo reinserisce nel circuito vivo delle musiche africane contemporanee, con strumentazione tradizionale (balafon, tama, kora), con ospiti come Tony Allen alla batteria, con arrangiamenti che esaltano la voce come strumento rituale e il ritmo come strumento di liberazione.
Walter Benjamin parlava della perdita dell’aura come perdita di contesto.
Angelique Kidjo, al contrario, restituisce il contesto. Fa parlare Remain in Light in foné, in yoruba, in fon, in lingue che evocano spiriti e radici. Trasforma l'opera in un oggetto vivo, cantato nei villaggi, danzato nei cortili, condiviso nel respiro collettivo della diaspora.
III. L’arte come gesto politico
Nel saggio di Benjamin, l'arte riprodotta perde la sua funzione rituale e si emancipa per assolvere un nuovo ruolo sociale, persino rivoluzionario. Questo principio trova una risonanza straordinaria nel progetto di Angélique Kidjo.
L’artista africana non si limita a reinterpretare i brani: li reinventa dal punto di vista di chi ha subito il colonialismo culturale. Il testo di Born Under Punches, che nella versione originale denuncia l’ansia esistenziale dell’uomo moderno, nelle mani di Kidjo diventa la confessione amara di un corpo colonizzato, frammentato, che cerca riscatto nel ritmo tribale. Houses in Motion acquisisce un significato mistico e sciamanico, mentre Crosseyed and Painless, già attraversato da una pulsazione funky urbana, si trasforma in un inno alla diaspora globale.
La scelta stessa di reinterpretare Remain in Light è un atto politico: è come se Kidjo dicesse al mondo bianco ''questo suono è nostro, lo avete preso, ma noi sappiamo come rianimarlo, farlo danzare, renderlo di nuovo sacro''.
È una risposta implicita, potente, alla retorica postmoderna dell’ibridazione, che spesso nasconde i rapporti di potere.
Angelique Kidjo non rifiuta l’ibrido, ma lo attraversa con consapevolezza, rivendicando una parità di voce e di visione.
IV. Un album che respira
Musicalmente, l'album di Angelique Kidjo è un’opera di straordinaria complessità. Ogni brano è stato riarrangiato con maestria, riplasmato in chiave afro-funk, jazz, highlife, con un’enfasi particolare sul canto corale e sulla struttura ciclica. L’approccio vocale di Kidjo è esplosivo: la sua voce, potente e flessibile, guida l’ascoltatore attraverso una vera e propria trance sonora.
Laddove i Talking Heads costruivano l’inquietudine con loop ipnotici e riff dissonanti, Kidjo apre alla catarsi: ogni groove è un vortice che invita al movimento, ogni traccia è un canto rituale che cerca liberazione, non solo rappresentazione.
The Great Curve, che nell’originale era un crescendo ossessivo, ora esplode in un delirio ritmico in 12/8, con cori femminili che sembrano evocare un rito ancestrale.
Listening Wind viene trasformata in una ballata dolente, che parla di identità e resistenza, mentre Once in a Lifetime, il brano più celebre, è qui desacralizzato e riformulato come un dialogo tra le culture, con la voce di Kidjo che sfida, interroga, canta ''This is not your beautiful house'' come un grido ironico e politico.
La produzione, curata da Jeff Bhasker, nome di spicco del pop internazionale, ma anche profondo conoscitore delle musiche nere, è di altissimo livello: pulita, potente, ma rispettosa delle sfumature. Ogni dettaglio sonoro è messo al servizio della voce e del messaggio.
V. Oltre il remake: l’arte come contro-narrazione
Ciò che rende Remain in Light di Angélique Kidjo un’opera eccezionale non è solo la qualità musicale, ma l’intelligenza concettuale con cui affronta il tema della memoria culturale. Benjamin sosteneva che la tecnica non distrugge l’arte, ma la trasforma. In quest’ottica, Kidjo utilizza la tecnologia (la registrazione, l’arrangiamento digitale, la diffusione globale) per dare nuova forma a una narrazione che le era stata in parte sottratta.
Il suo album è una contro-narrazione: non smentisce l’originale, ma lo decostruisce, lo interroga, lo arricchisce. L’operazione non è distruttiva, ma generativa. È come se un nuovo significato fosse stato inciso su un vinile già stampato: un palinsesto sonoro, dove si legge ancora il passato, ma attraverso l’inchiostro vivo del presente.
Questo è l’aspetto più benjaminiano del progetto: la riattivazione dell’opera come oggetto auratico, non nel senso dell’unicità irripetibile, ma della sua capacità di ''parlare al presente'', di trasformarsi in esperienza viva.
VI. La dimensione del sacro e della festa
Se per Benjamin la perdita dell’aura è anche la perdita del sacro, Angélique Kidjo ci ricorda che la musica africana non ha mai smesso di essere un atto sacro. Ogni performance è rituale, ogni canto è invocazione, ogni ritmo è celebrazione.
Nel suo Remain in Light, la sacralità torna attraverso la danza, il corpo, la collettività. Ascoltare quest’album è un’esperienza che va oltre l’orecchio: è un invito alla trance, alla partecipazione. Non è musica da museo, né da salotto intellettuale: è musica che brucia nei piedi, che risveglia le ossa, che riporta il suono al corpo.
E qui l’aura si manifesta di nuovo: non come oggetto da contemplare, ma come esperienza da vivere. L’arte, diceva Benjamin, può ancora essere rivoluzionaria se riesce a mobilitare le masse.
Angelique Kidjo ci riesce, ma senza propaganda: lo fa con il ritmo, la voce, la verità del suono.
*Remain in Light* di Angélique Kidjo è molto più di una cover. È un’opera autonoma, auratica, politica. È un esempio di come la riproduzione tecnica possa non solo non uccidere l’arte, ma rilanciarla verso territori nuovi, radicali, necessari.
Nel tempo delle playlist algoritmiche, della musica usa e getta, dei remake senz’anima, questo album si impone come gesto di resistenza: un grido di libertà, un’esplosione di creatività, una lezione di stile e sostanza.
È anche, in fondo, una risposta implicita all’eredità di Walter Benjamin: se l’aura può sopravvivere, non lo fa nell’unicità irripetibile, ma nel gesto che riattiva il senso, che rilegge la storia, che restituisce voce a chi è stato muto troppo a lungo e che celebra la rinascita di un’arte viva, rituale, necessaria.
Un’opera che brucia, come la luce, e che resta.
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