Viviamo un’epoca in cui le storie ci raggiungono ogni giorno in forme diverse: film, canzoni, immagini, post, podcast. Eppure, a guardar bene, tante di queste storie sembrano raccontare sempre la stessa cosa. È come se ci fosse una narrativa dominante che, con piccole variazioni sul tema, continua a ripetersi. Ma fortunatamente, c’è chi sceglie di raccontare altro. Esiste un controcanto, fatto di artisti, registi, musicisti e narratori che sfuggono ai riflettori delle grandi produzioni e dei trend del momento, espressione di un mondo sommerso ma vivo, dove l’arte torna ad essere strumento di visione critica, di libertà e di resistenza.
Un mondo dove si osa dire ciò che altrove viene taciuto, e dove l’espressione non è un prodotto da vendere ma una necessità da comunicare.
I contenuti che consumiamo ogni giorno sono filtrati da algoritmi che premiano ciò che è già popolare, facilmente digeribile, e che conferma le aspettative dell’utente. L’obiettivo è chiaro: mantenere alto l’engagement, massimizzare il tempo speso sulla piattaforma, evitare il rischio. Questo ha generato un ecosistema in cui la creatività rischia di diventare formula, e dove la "diversità" di visione viene marginalizzata. Basta guardare le classifiche musicali o le serie più viste sulle piattaforme: quante di esse raccontano qualcosa di realmente nuovo o scomodo?
Questa omologazione sociologica e culturale è il risultato non solo di una logica economica, ma di una forma di anestesia estetica: tutto deve piacere a tutti, essere rassicurante, immediato, facilmente condivisibile.
L’arte indipendente, in ogni sua forma, nasce anche come reazione a questa logica. È una dichiarazione di indipendenza non solo dai capitali, ma anche dalle convenzioni narrative, estetiche e morali del tempo presente.
Negli ultimi anni, il cinema indipendente ha riscoperto il suo potere politico e sociale. Registi come Chloé Zhao, Jonas Carpignano, Alice Rohrwacher o Sean Baker riescono a raccontare storie che sfuggono alla logica dello spettacolo puro. Le loro opere parlano di marginalità, di umanità fragile, di territori dimenticati.
Sono film che ascoltano prima di parlare, che osservano prima di giudicare.
Chloé Zhao, per esempio, in Nomadland ha dato voce a una generazione invisibile di nomadi americani, esclusi dal sogno capitalistico. Jonas Carpignano, con A Chiara o Mediterranea, ha esplorato l’incontro tra culture nel sud Italia, scavando nella realtà spesso ignorata dell’immigrazione.
Alice Rohrwacher ci ha accompagnato in un’Italia magica e contadina, dove il tempo sembra essersi rotto, mentre Sean Baker ha raccontato le vite ai margini dei grandi parchi tematici americani, tra sogno e degrado.
Pur a fronte di distribuzioni non adeguate, grazie allo streaming e al passaparola, queste opere riescono talvolta a trovare una loro strada, anche fuori dalle sale. Ma è comunque fondamentale l'esistenza di un pubblico che sappia cercare, che non si accontenti dell’offerta proposta.
Il cinema indipendente non ti viene incontro: ti sfida.
Medesima situazione, anche se in misura maggiore, esiste in ambito musicale, ove si sta assistendo a una nuova ondata indipendente, spesso legata a scene locali, spazi autogestiti, etichette alternative o semplicemente a una filosofia DIY (Do It Yourself).
In un panorama dove le grandi etichette investono in progetti sempre più simili tra loro, molti artisti scelgono di fare un passo indietro per poter avanzare in un’altra direzione.
Artisti come ANOHNI, Sleaford Mods, RY X, o i nostri italiani IOSONOUNCANE, Any Other e Murubutu (che fonde rap e letteratura), stanno costruendo percorsi paralleli, rifiutando di omologarsi alle logiche radiofoniche o discografiche tradizionali.
IOSONOUNCANE, esponente di spicco della scena indipendente sarda, ad esempio, ha realizzato IRA, un'opera monumentale, interamente autoprodotta, che sfida le convenzioni del formato canzone. Murubutu usa il rap come strumento educativo, narrando episodi storici e letterari con rigore e poesia.
In questi casi, la musica torna ad essere ricerca, linguaggio poetico, gesto politico.
E, paradossalmente, riesce a parlare con più forza proprio perché non cerca il consenso facile. Chi ascolta questi artisti non è un consumatore distratto, ma un interlocutore coinvolto.
È una relazione diversa, più autentica.
Internet ha offerto a molti artisti uno spazio di espressione libero dalle logiche di mercato.
Bandcamp, Substack, Patreon, ma anche newsletter, blog e radio indipendenti, sono diventati strumenti fondamentali per chi vuole restare autonomo, visto che permettono una relazione diretta tra autore e pubblico, senza mediazioni invasive.
Ma presentano anche criticità.
La sostenibilità economica resta un ostacolo importante: vivere d’arte indipendente significa spesso vivere in precario. Inoltre, anche le piattaforme alternative stanno subendo processi di centralizzazione e regolamentazione che rischiano di minarne lo spirito originario. L’algoritmo, pur meno invadente, continua a esistere, e può penalizzare contenuti meno adatti al "click facile".
Ciononostante, si moltiplicano gli esperimenti: podcast autoprodotti che fanno informazione critica, webzine culturali che resistono all’erosione della stampa di regime, progetti transmediali che uniscono suono, parola e immagine in forme nuove.
È una galassia frammentata, ma fertile.
Molti progetti artistici oggi nascono dal basso, come frutto di esperienze collettive. Laboratori, festival indipendenti, produzioni partecipate stanno riportando l’arte nel suo contesto originario: quello del dialogo, del confronto, del rito comunitario.
Pensiamo a festival come Terraforma, Ariano Folkfestival o Crack! Fumetti dirompenti, che non sono solo contenitori di eventi ma spazi di incontro, scambio, riflessione. Oppure a collettivi come i napoletani Korybass, che danno voce alla comunità queer napoletana e non solo, che uniscono attivismo e ricerca di nuove forme espressive, dando vita a narrazioni condivise e radicali.
Non si tratta solo di estetica, ma di etica. Fare arte diventa un modo per ricucire il tessuto sociale, per dare voce a chi non ce l’ha, per creare spazi di senso in un mondo che sembra sempre più frammentato. La bellezza non è più un fine, ma una conseguenza del legame.
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Korybass |
Il controcanto culturale non è solo una reazione al mainstream, ma un atto creativo autonomo, necessario.
In un tempo in cui tutto spinge verso l’uniformità, chi osa essere dissonante compie un gesto radicale. Raccontare il mondo da un’altra prospettiva, cercare voci nuove, praticare la libertà espressiva diventa una forma di resistenza.
E forse è proprio in queste dissonanze che si nasconde la vera armonia: quella che non appiattisce, ma apre, che non impone, ma invita a pensare. L’arte, in fondo, dovrebbe fare questo. E lo sta facendo. Lontano dai riflettori, ma vicina alla verità. Dentro un racconto diverso, più umano. Un controcanto, sì, ma che forse è già la melodia del futuro.