lunedì 30 giugno 2025

Michael Gira – Il monaco del rumore: un viaggio tra ossessione, violenza e trascendenza


Michael Gira non è soltanto un musicista. 
È un sacerdote dell’estremo, un alchimista del suono che ha trasformato il dolore in rituale, la ripetizione in incantesimo, la brutalità in una forma di estasi. 
Nato a Los Angeles nel 1954, cresciuto tra le macerie emotive di una famiglia disfunzionale e una giovinezza errabonda, Gira ha fatto della sua vita una lunga liturgia dell’abisso. Non c’è nulla di decorativo nella sua arte: ogni nota, ogni parola, ogni gesto è un chiodo piantato nella carne della realtà. Le radici della sua poetica sono nella ferita. L’infanzia di Gira è segnata da un padre alcolista, violento, distante, e da un rapporto conflittuale con la madre. A quindici anni fugge di casa, finisce in carcere in Israele per vagabondaggio, conosce la fame, la solitudine, l’abbandono. 
Queste esperienze non saranno mai davvero superate: verranno invece trasfigurate nella sua musica, che non chiede perdono né offre consolazione. La sua arte nasce da un trauma mai sanato e da una fame esistenziale insaziabile: una ricerca disperata di significato, di intensità, di assoluto. 
E il primo linguaggio che ha trovato per esprimere questa tensione è stato il rumore. 
Nel 1982, nel ventre rumoroso della New York post-punk, fonda i Swans, band che si impone subito per la sua violenza sonora quasi sadomasochista. I primi dischi — "Filth", "Cop", "Greed" — sono esperimenti di annichilimento. 


Bassi distorti, percussioni ossessive, urla inumane. Nessuna melodia, nessun rifugio. È come ascoltare un corpo mentre viene fatto a pezzi. In quei brani, Gira canta la crudeltà del potere, la schiavitù del desiderio, la brutalità dei rapporti umani. 
Le sue parole non sono testi, sono incisioni. 
Il sesso è potere, il potere è umiliazione, l’umiliazione è legge. 
La musica diventa un carcere acustico, una performance di controllo e sottomissione. 
Ma dietro la superficie sadica c’è un meccanismo spirituale: Gira si infligge il dolore per esorcizzarlo. La musica è un rito di purificazione brutale. Michael Gira non ha mai voluto essere una rockstar. La sua figura è sempre rimasta marginale rispetto al mainstream, anche all’interno della scena alternativa. Ma proprio per questo ha assunto nel tempo una statura mitica. 
Chi lo segue, lo fa con devozione. Chi lo incontra, lo descrive come intimidatorio, glaciale, monastico. Gira non si concede. Non sorride. Non parla a vanvera. Il suo volto, scavato, con lo sguardo che buca l’obiettivo, è l’immagine di un uomo che ha attraversato il deserto. 
La sua voce, bassa e ieratica, è quella di un predicatore dell’Apocalisse. In lui convivono il rigore dell’esteta e la furia dell’anarchico, la disciplina del monaco e la perversione del torturatore. 
Verso la fine degli anni ’80, la musica dei Swans inizia a cambiare. Gira incontra Jarboe, cantante e performer dal timbro etereo e inquietante. La loro relazione, tanto artistica quanto affettiva, trasforma radicalmente la band. "Children of God" (1987) è il punto di svolta: un disco in cui la violenza si spiritualizza, si fa liturgia. 

Jarboe e Michael Gira

Il suono si apre a elementi folk, gotici, persino corali. I testi iniziano a parlare di redenzione, di peccato, di Dio. Ma anche qui non c’è pace: la religione non è conforto, è flagello. 
Gira canta come un sacerdote impazzito, Jarboe lo accompagna come un’eco angelica e demoniaca. I due sembrano danzare sull’orlo dell’abisso. La loro relazione è intensissima e devastante, e terminerà anni dopo lasciando scorie profonde in entrambi. 
Nel 1997, esausto, Gira scioglie gli Swans. Non vuole più urlare, non vuole più distruggere. Fonda Angels of Light, progetto più intimista e acustico. Ma anche qui, l’oscurità è presente. Solo che adesso si nasconde dietro melodie folk, arpeggi lenti, armonie malinconiche. I testi diventano più narrativi, ma il male è sempre lì: sottopelle, sussurrato. 
Gira canta l’America profonda, la solitudine, la memoria, l’amore come prigione. È la fase più "umana" della sua carriera, ma non per questo meno disturbante. Contemporaneamente fonda l’etichetta Young God Records, con cui produce artisti fuori dagli schemi, come Devendra Banhart o Akron/Family. Ma anche come produttore, resta fedele a una poetica anti-commerciale, radicale, visionaria. 
Nel 2010, contro ogni aspettativa, Michael Gira resuscita gli Swans. 
Ma non sono più gli stessi. 
Adesso sono un collettivo sonoro sciamanico, dedito a brani di 20, 30 minuti, fatti di crescendo infiniti, ritmi ipnotici, muri di suono che sembrano voler aprire portali cosmici. Album come "The Seer" (2012), "To Be Kind" (2014) e "The Glowing Man" (2016) sono monumenti di musica rituale. I concerti diventano esperienze sensoriali totali: volumi devastanti, trance collettiva, immersione totale. 


Gira dirige la band come un condottiero silenzioso, muovendo le mani come un direttore d’orchestra dello spirito. Questa nuova fase è quella della trascendenza per il rumore. Gira non vuole più solo esprimere il dolore: vuole superarlo, sublimarlo. Ma per farlo, bisogna attraversare il fuoco. 
La musica dei nuovi Swans è un battesimo violento, una preghiera fatta di detriti sonori, una comunione pagana. Michael Gira ha oggi più di settant’anni. Non ha mai cercato il successo, né il compromesso. La sua vita è un progetto artistico coerente, una lunga meditazione sulla sofferenza, il potere, la carne, il tempo, la morte.
I suoi dischi non si ascoltano: si vivono. 
Si subiscono. 
Si attraversano. 
Non è mai stato immune da controversie. 
Accuse di abuso emotivo, relazioni tossiche, comportamenti autoritari: il suo lato oscuro non è solo artistico. Ma proprio per questo la sua opera è così disturbante e necessaria. Non è l’opera di un santo, ma quella di un uomo che ha deciso di guardare in faccia l’abisso e di portarlo in scena, notte dopo notte, nota dopo nota. 
In giorni come questi, caratterizzati da superficialità sonora, da musica usa-e-getta, Michael Gira è rimasto un monaco del suono, un artigiano dell’assoluto. 
La sua arte non offre risposte, ma ferite. Non cerca approvazione, ma confronto. È scomoda, inquietante, necessaria. 
La sua musica è come lui: implacabile, austera, feroce, spirituale. È il suono dell’uomo che non si arrende. Del corpo che grida. 
Dell’anima che cerca la luce, anche — e soprattutto — dentro il buio più fitto.

Playlist:

1. Swans – Power for Power (da "Filth", 1983)
2. Swans – A Screw (Holy Money Version, 1986)
3. Swans – Children of God (da "Children of God", 1987)
4. Swans – Failure (da "White Light from the Mouth of Infinity", 1991)
5. Swans – The Sound (da "Soundtracks for the Blind", 1996)
6. Angels of Light – All Souls' Rising (da "How I Loved You", 2001)
7. Swans – The Seer (da "The Seer", 2012)
8. Swans – Bring the Sun / Toussaint L’Ouverture (da "To Be Kind", 2014)
9. Swans – The Glowing Man (da "The Glowing Man", 2016)
10. Swans – Michael Is Done (da "Leaving Meaning", 2019)

Cronologia discografica essenziale:

1983 – "Filth" (Swans)
1984 – "Cop" (Swans)
1986 – "Greed" e "Holy Money" (Swans)
1987 – "Children of God" (Swans)
1991 – "White Light from the Mouth of Infinity" (Swans)
1995 – "The Great Annihilator" (Swans)
1996 – "Soundtracks for the Blind" (Swans)
2001 – "How I Loved You" (Angels of Light)
2003 – "Everything Is Good Here/Please Come Home" (Angels of Light)
2010 – "My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky" (Swans)
2012 – "The Seer" (Swans)
2014 – "To Be Kind" (Swans)
2016 – "The Glowing Man" (Swans)
2019 – "Leaving Meaning" (Swans)
2023 – "The Beggar" (Swans)



mercoledì 25 giugno 2025

Giugno


Le quattro stagioni interiori di giugno: tra jazz metamorfico, folk ultraterreno e punk esistenziale

Giugno 2025 si è rivelato un mese denso, stratificato, quasi terapeutico per chi ancora cerca nella musica non solo intrattenimento, ma risposte. Le nuove uscite discografiche più rilevanti non si somigliano affatto per forma, stile o intenzione, ma condividono un’ambizione rara nel panorama contemporaneo: quella di scandagliare il tempo interiore, il trauma, la memoria, la ricerca di senso. Dai Gogo Penguin ad Alan Sparhawk, dai Turnstile ai Wandering Hearts, ci troviamo di fronte a quattro opere che non si accontentano di suonare bene. Vogliono dire qualcosa. E, con ogni nota, ci riescono.


Gogo Penguin – Necessary Fictions

Con Necessary Fictions, i Gogo Penguin proseguono la loro parabola evolutiva in direzione di un jazz sempre più liquido, ipnotico, e meno vincolato alle definizioni di genere. Il titolo stesso è un ossimoro raffinato che riflette l’intero impianto concettuale dell’album: la finzione – necessaria, vitale – come unico modo di sopravvivere a una realtà che sfugge alle categorie stabili.
Il trio di Manchester abbandona qualsiasi tentazione virtuosistica per concentrarsi sull’essenziale: groove circolari, atmosfere rarefatte, silenzi che diventano protagonisti quanto le note. Il piano di Chris Illingworth non si limita a guidare le melodie, ma scolpisce lo spazio come uno scalpello invisibile, mentre basso e batteria generano un’architettura ritmica che pare fluttuare tra post-rock, ambient e minimalismo classico.
È un disco che si ascolta come si attraversa una foresta nebbiosa: a ogni passo si perde qualcosa e si scopre qualcosa d’altro. La sensazione finale non è quella di un arrivo, ma di un transito, come se la musica stessa si rifiutasse di chiudere il cerchio per permettere all’ascoltatore di completarlo da sé.



Alan Sparhawk with Trampled by Turtles – Alan Sparhawk with Trampled by Turtles

Il ritorno di Alan Sparhawk, dopo la tragica scomparsa della moglie Mimi Parker e la conseguente pausa dei Low, è uno degli eventi più emotivamente carichi dell’anno musicale. Questo nuovo progetto con i Trampled by Turtles non è solo una collaborazione, ma una sorta di rito di passaggio, una liturgia del dolore che diventa canto.
Il suono è radicalmente diverso da quello dei Low: qui si intrecciano le radici del bluegrass con un’anima folk desolata, intimista, quasi biblica. Le armonie vocali, il calore degli strumenti acustici, la forza tellurica del violino e del banjo, tutto contribuisce a creare un mondo sonoro in cui la perdita non è negata, ma accolta. È un album che non piange, medita. Che non esplode, pulsa.
Sparhawk canta come chi ha attraversato la fine del mondo e ne è uscito nudo, disilluso, ma non senza fede. Non una fede religiosa, ma una fede nell’umano, nella possibilità che la bellezza possa ancora esistere anche quando tutto il resto è crollato. È un lavoro che sussurra e non grida, che resta con te a lungo, come una conversazione che non sai dimenticare.




Turnstile – Never Enough

In un’epoca in cui molte band hardcore si rifugiano in formule nostalgiche o si disperdono in esperimenti incerti, i Turnstile alzano la posta e pubblicano un album che ha il coraggio di cambiare pelle senza perdere la propria identità. Never Enough è un titolo che suona come un grido e una confessione: l’urgenza emotiva non basta mai, l’energia non è mai sufficiente a contenere il caos interiore.
Il disco è una miscela esplosiva di hardcore, punk melodico, post-rock e perfino psichedelia. Ma la cosa più sorprendente è il controllo, la chiarezza con cui ogni elemento è orchestrato. Non c’è dispersione, non c’è decoro gratuito: ogni brano sembra essere stato limato fino all’osso per restituire solo ciò che conta.
Brendan Yates canta come chi ha trovato una nuova voce dentro un corpo che si spezza. Le chitarre non si limitano a spingere in avanti: fluttuano, costruiscono paesaggi sonori che sembrano voler contenere la furia anziché scatenarla. È un disco di crescita, di transizione, di liberazione.
I Turnstile dimostrano che si può restare fedeli alla propria anima anche cambiando tutto. 
Never Enough non è solo un titolo, è una dichiarazione esistenziale: ciò che ci basta oggi, domani non basterà più. 
E va bene così.


The Wandering Hearts – Déjà Vu (We Have All Been Before)

I Wandering Hearts tornano con un progetto audace e profondamente rispettoso: la reinterpretazione integrale di uno dei capisaldi del rock degli anni '70, Déjà Vu di Crosby, Stills, Nash & Young, album leggendario entrato di diritto nella storia della musica. Ma non si tratta di una semplice operazione nostalgica: Déjà Vu (We Have All Been Before) è un vero e proprio remake spirituale, che rilegge l’opera originale con sensibilità contemporanea, evitando l’insidia del tributo calligrafico.
L’intero album è costruito come un viaggio ciclico, un ritorno al punto di partenza che non è mai davvero lo stesso. Le armonie vocali – il tratto distintivo della band – raggiungono qui un equilibrio sublime: ogni voce è una sfumatura, ogni coro una rivelazione.
Tematicamente, l’album resta fedele all’originale nelle intenzioni, ma ne amplifica la dimensione onirica e sciamanica, rendendola ancora più adatta al presente. Anche nei momenti più solenni, la scrittura, arricchita da arrangiamenti che mescolano folk, country e accenni elettronici, resta asciutta, intensa, vibrante. Le ballate più lente hanno la forza magnetica di una preghiera pagana; i brani più ritmati evocano un’America immaginaria, che potrebbe esistere solo nella mente di un sognatore malinconico.
È un disco che ha il coraggio di parlare al cuore senza scorciatoie, senza ironia, senza smancerie. E per questo colpisce nel profondo. Un’opera matura, sincera, necessaria. 
Un omaggio che si fa reinvenzione, e che restituisce a Déjà Vu la sua vocazione eterna: quella di un’eco che attraversa i decenni per tornare a vibrare, sempre uguale e sempre nuova.


Giugno ci consegna non una stagione discografica, ma quattro stagioni interiori. Necessary Fictions è l’inverno rarefatto della riflessione, Never Enough è l’estate esplosiva della ribellione, il lavoro di Alan Sparhawk è l’autunno del lutto e della ricostruzione, Déjà Vu è la primavera spirituale del ritorno.
Ognuno di questi dischi offre una risposta diversa alla stessa domanda: cosa resta, oggi, quando tutto sembra già stato detto? La risposta, per fortuna, è la musica stessa. Resta la possibilità di tornare a credere, anche solo per il tempo di una canzone.



N4POLI C4MPIONE

NAPOLI CONTRO TUTTI. UN TRICOLORE CHE BRUCIA NEI PALAZZI DEL POTERE Hanno provato a sminuirla, hanno cercato in tutti i modi di delegittim...

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