Innanzitutto, chi era Bobby Gentry?
Credo che a rispondere a questa domanda possano essere solo vecchi ragazzi che hanno vissuto l'epoca del beat e che, nel 1967, furono colpiti da una ballata cupa e soave capace di conquistare le classifiche, "Ode To Billy Joe".
A cantarla con voce da angioletta era una ragazza del profondo sud emigrata in California, che non aveva mai dimenticato le sue radici e lì aveva ambientato la triste storia di un ragazzo che si era buttato giù da un ponte, tra lo stupore ma soprattutto l’indifferenza di chi gli stava intorno: la canzone raccontava giusto quello, un suicidio diventato presto chiacchiera nello scorrere della vita di tutti i giorni in provincia.
Bobbie diventò una piccola star, anche perchè aveva ambizioni nel mondo della musica country e in quel territorio maschile e maschilista era difficile trovare cantautori di genere femminile. Era bella, oltre che brava, e la cosa la aiutò a muoversi con disinvoltura nel mondo del live e della tv.
Pubblicò sette album, tra i quali "The Delta Sweete", per poi ritirarsi definitivamente, sparendo dalle scene.
Detto ciò, sarebbe lecito avanzare dubbi preventivi su di un'operazione come quella operata dai Mercury Rev, tesa al restyling del suddetto album, visto che molto spesso analoghi tentativi si sono rivelati inutili, o perlomeno non in grado di competere con gli originali.
La prima cosa importante che i Mercury Rev mettono in atto è farci conoscere un disco del 1968 rendendogli omaggio in modo decisamente unico. Così prima ancora di ascoltare la loro, sei costretto a ricercare la versione originale. E restarne incantato. Quel gusto un po’ Southern Gothic, leggere percussioni per dare spazio alla profondità emotiva delle canzoni.
Racconti agricoli, le lacrime della vita che si sollevano nella sabbia del Sud, le dure e interminabili giornate di lavoro.
Un disco blues elegante e spurio di chitarre soliste, in contro tendenza rispetto al periodo.
Un disco magico, che forse possiamo avvicinare solo a quelli di Dr. John in quanto a legame con la terra.
I Mercury Rev inoltre, mostrandosi bravi e furbi quanto basta per scampare il pericolo di una pedissequa riproduzione dell'originale, decidono di mettere temporaneamente da parte la voce del frontman e affidare le parole di Bobbie Gentry a un "dream team" di voci femminili.
Un’elenco di nomi da far tremare le vene dei polsi, che va dalle dee country Lucinda Williams e Margo Price alle sirene alternative Rachel Goswell e Hope Sandoval, passando per Norah Jones e le sofisticate Marissa Nadler e Laetitia Sadier.
Ma anche la rediviva Beth Orton e la giovane Phoebe Bridgers.
Si può subito affermare che, grazie a una misurata e calibrata gestione degli arrangiamenti, che non tendono a ribaltare la prospettiva originale ma aggiungono qua e là piccoli accorgimenti, viene ampliata l'estetica originaria del progetto senza snaturarne la natura.
Bobby Gentry |
Nello stesso tempo i Mercury Rev non si limitano a una semplice rivisitazione del disco di Bobby Gentry: accantonato lo spirito più sperimentale, quello che resta in gioco della loro musica è un suono pastoso, drammatico, eppure essenziale.
D’altronde, già da tempo la band aveva rinunciato a sonorità noise, concedendo più spazio ad archi e violini, privilegiando così atmosfere oniriche e vellutate.
E così avviene sin dall’overture “Okolona River Bottom Band”, in cui Norah Jones viene fatta cantare in un’atmosfera dai contorni diafani, tra sintetizzatori fumosi, pianoforte e charleston appena sfiorati. Slide guitar narcolettiche e un wurlitzer malconcio accompagnano invece Hope Sandoval in una versione sensuale e intorpidita di “Big Boss Man”, polvere e tepore.
Pur restando coeso e unitario, l’album alterna, come era prevedibile, alcune tracce più riuscite ad altre puramente funzionali all’insieme. E’ poco efficace l’incontro tra l’armonica di “Reunion” e la voce di Rachel Goswell, mentre Lucinda Williams estrapola lo spirito più blues di “Ode To Billie Joe”, senza centrare fino in fondo l’anima del brano più famoso di Bobbie Gentry: brano peraltro non facente parte del disco originale e qui inserito al posto della poco rilevante “Lousiana Man”.
Alla norvegese Susanne Sundfør spetta il compito di rimescolare le carte con uno dei momenti più incalzanti, la movimentata “Tobacco Road”, che però non manca di far intrecciare la vocalità della cantante a un celestiale turbine di fiati e archi.
Va però a Margo Price la palma d’oro per la sensazionale interpretazione di “Sermon”. Più affini allo spirito sixties appaiono le due versioni affidate a due delle voci più interessanti degli anni 80, ovvero Beth Orton in “Courtyard” e Laetitia Sadier in “Mornin' Glory”.
Tocca invece a Phoebe Bridgers elevare il tono estatico dell’album con un’incantevole cover molto fedele all’originale di “Jesseye’ Lisabeth”, resa però ancora più evanescente dai sospiri e dal tono flebile della giovane ragazza californiana.
Mercury Rev |
A Vashti Bunyan e Kaela Sinclair spetta il compito di dare nuova linfa agli scorci bucolici di “Penduli Pendulum”, in una versione con un pianoforte solenne in luogo della chitarra.
Nonostante arrangiamenti più o meno, a seconda dei brani, distanti dagli originali, quello che non viene mai tradito è lo spirito innovatore del disco originale di Bobby Gentry. Questo progetto dei Mercury Rev offre un ulteriore motivo per riscoprire meglio l’opera dell’artista americana, la cui opera completa è stata pubblicata in un elegante cofanetto: “The Girl From Chickasaw County: The Complete Capitol Masters”. Un compendio perfetto dell’opera di una personalità miliare non solo di country e folk, ma dell’intero cantautorato al femminile – filone del quale la Gentry, scrivendo i testi delle sue canzoni quando per una donna non era poi così scontato, è stata pioniera assoluta.
Curiosità: come accadeva in quegli anni, anche Bobby Gentry, nel 1968, prese parte al Festival di Sanremo con il brano "La Siepe", in coppia con Al Bano!
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