giovedì 12 settembre 2024

Le mille storie di Napoli/1

Questa è la storia di un fazzoletto di strade, dove ogni singola pietra racconta il passato. Siamo nel cuore di un triangolo magico: la statua del Nilo, i sotterranei alchemici di palazzo Sangro di Sansevero, il giardino magico di palazzo Pignatelli di Toritto.
Tre storie, tre leggende, tre scrigni di antiche memorie nel cuore pulsante di Spaccanapoli.
Che ci fa un dio egizio a poca distanza da piazza San Dome­nico e dai palazzi dell’università? La statua del dio Nilo fu eretta dalla colonia di Alessandrini che un secolo prima dell’avvento di Cristo ne avevano importato a Napoli il culto. L’intero quartie­re circostante fu da allora indicato come Regio Nilensis e l’attuale piazzetta Nilo, incastrata nel dedalo di strade del centro antico sta lì a ricordarcelo.


Molti ritengono che il vero cuore della città sia proprio qui, dove sorge la celebre statua dedicata al fiume-divinità. La scultura, risa­lente al II secolo dopo Cristo, raffigura il Nilo con le sembian­ze di un vecchio con il volto barbuto, sdraiato su una pietra e con i piedi appoggiati sulla testa di un coccodrillo; è attorniato da putti a suggerirne la fertilità – e nel blocco scultoreo compariva in origi­ne anche una testa di sfinge. 
Quest’ultima, trafugata oltre cinquanta anni fa e rivenduta al mercato dell’antiquariato nero, è stata recupe­rata in Austria nel dicembre 2013: la sfinge ha potuto così rimettere “la testa a posto”. Per tutti i napoletani, ancora oggi, è un simbolo di fratellanza e rispetto verso le altre culture presenti in città.
Anche la testa del dio-fiume, a un certo punto, sparì nel nulla, forse rubata dai cristiani ostili ai culti pagani. Non ricomparve che molti secoli dopo, nell’area dell’antico monastero di Donnaromita.
Frattanto, però, quel busto rimasto tanto a lungo tronco era stato ri­battezzato "O cuorpo ‘e Napule", quasi fosse una statua diversa, e per molto tempo si pensò addirittura che rappresentasse una donna in­tenta ad allattare i suoi figli. 
Con il restauro a opera di Bartolomeo Mori, avvenuto nel 1657 per iniziativa delle famiglie del Seggio,  l’equivoco su cosa rappresentasse il monumento fu chiarito. 
L’appellativo tuttavia rimase, ed è tuttora usato.
La zona che si stende intorno alla statua, nel decumano inferiore all’angolo con uno dei cardi, ebbe tra i suoi frequentatori assidui an­che l’imperatore Nerone, che amava esibirsi nei suoi teatri.
A lungo e saldamente nelle mani della comunità alessandrina, una delle più influenti tra quelle che, favorite dalla crescita degli scambi commer­ciali, sbarcarono a Napoli, la zona aveva il suo fulcro nel tempio dedicato a Iside, i cui culti iniziatici sono tuttora alla base della maggior par­te delle scuole esoteriche. 
Risale al 1891 la scoperta, a dieci metri di profondità del piano stradale, di un numero cospicuo di grossi massi di tufo che, secondo gli studiosi della Napoli greco-romana, sareb­bero stati parte proprio del luogo di culto dedicato alla divinità egizia.
Il luogo dove tali rituali andavano in scena, con il loro carico di sacrifici e misteri, era probabilmente proprio di fianco alla statua del Nilo, in quel palazzo Pignatelli di Toritto i cui cortili, archi e colonne sono considerati i resti del più antico Seggio napoletano. 


Posto nei sotterranei di piazza San Domenico, alle spalle di palazzo Sangro di Sansevero, è un luogo magico attraversato da innumerevoli leggende.
Fu scelto dai sacerdoti della Regio Nilensis soprattutto per la presenza del Taglina, un piccolo fiume che scorreva qui al tempo e che, convogliato nella Vasca Sacra del tempio, permetteva di dar corso alle abluzioni di prammatica prima di officiare i riti sacri. 
Il Taglina, tuttavia, non era un semplice corso d’acqua; ben presto i sacerdoti di Iside si resero conto di come il fiumicello fosse un catalizzatore di energie, e luogo di forze a sua volta. L’altare per i sacrifici fu eretto proprio sulle sue sponde, nel punto dove oggi si trova il giardino di palazzo Pignatelli di Toritto, purtroppo visitabile solo previe autorizzazioni ufficiali da parte delle associazioni che ne detengono la custodia.


E’ giunta testimonianza di come i sacerdoti egizi pra­ticassero un culto segreto che prevedeva l’elevazione, in senso letterale, oltre che simbolico, dell’officiante, attraverso l’appli­cazione di antiche conoscenze. È proprio tale circostanza a suggerire perché i sacer­doti di Iside avessero scelto per le loro cerimonie il fazzoletto di strade intorno a piazza San Domenico: non privi di conoscenze rabdomantiche, i sacerdoti si erano resi conto di come quest’area della città si prestasse particolarmente ai loro rituali. 
È il Buonoconto, studioso di scienze ermetiche e di linguaggio esoterico, a venirci in soccorso: “Oggi sappiamo, perché abbiamo gli strumenti adatti a misurarlo, che in alcune parti della Terra si sommano, più che in altre zone, delle componenti magnetiche naturali, dovute alla composizione stessa delle rocce o del terreno, che permettono l’avverarsi di alcuni fenomeni particolari normalmente attribuiti alla volontà divina”.
Gli antichi sapienti, gli iniziati, erano dunque in grado, dal diver­so colore delle rocce o della vegetazione, o dalla diversa disposizione delle pietre, di riconoscere il luogo di forze sul quale operare per ottenere i fenomeni magici.
I sacerdoti egiziani, in ogni caso, non furono i soli ad abitare i te­nebrosi anfratti di piazza San Domenico: Raimondo di Sangro, prin­cipe di Sansevero, tra i massimi scienziati napoletani del Settecento, chimico stravagante e gran maestro della Massoneria, volle unire l’area della Vasca Sacra e del tempio di Iside con i sotterranei della cappella di famiglia, che sorge a poca distanza.
L’intento era quello, verosimilmente, di utilizzare per i suoi esperimenti il luogo di forze e i motivi esoterici legati al tempio egizio. La vasta rete di cunicoli sotterranei creata a tal fine dal principe è stata al centro in passato di svariate campagne di scavi archeologici, e per molto tempo il parco della proprietà fu teatro di riunioni esoteriche e sedute spiritiche. 

Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero

Se furono gli alessandrini a portare a Napoli i culti egizi e le conoscenze esoteriche dei sacerdoti del Nilo, tutt’altra origine hanno i riti iniziatici legati al dio Mitra, colui che “guida le anime nel loro viaggio”. Si tratta, in questo caso, di una divinità indio-iranica il cui culto si diffuse in tutta l’area del Mediterraneo tra il secondo secolo avanti Cristo e il quinto secolo dopo Cristo.


Il culto di Mitra giunse naturalmente anche a Napoli, cìttà che prima e più di altre ha conosciuto la penetrazione di popoli, lingue e religioni diverse, forse con i legionari che avevano in precedenza prestato servizio in Oriente. 
Quando il Cristianesimo prese definitivamente piede, tuttavia, e i seguaci di Gesù non furono più costretti a riunirsi in segreto nelle catacombe, furono allora i sacerdoti pagani a venir perseguitati, E i seguaci di Mitra furono ricacciati nel buio.
Quanto ai napoletani, forse delusi da altri idoli troppo distratti o bugiardi, mostrarono di apprezzare questo giovane dio solare che, con il caratteristico copricapo frigio (lo Stesso usato poi dai rivolu­zionari francesi) e raffigurato nell’atto di uccidere il toro che cavalca­va, rigenerando così la vita e la fecondità dell’universo, guidava le anime nel loro viaggio oltreterreno.
Tracce dei mitrei, le cripte adoperate per le cerimonie d’iniziazione, sono tuttora visibili in alcune zone della città e rivelano dove gli adora­tori del Sol Invictus usassero incontrarsi. La colonia più attiva si riuniva nei pressi dell’attuale via Duomo, dove i bombardamenti della secon­da guerra mondiale hanno fatto tornare alla luce i resti di un complesso di epoca romano-imperiale poi inglobato nella chiesa di Santa Maria del Carmine (o San Carminiello) ai Mannesi. 


Il mitreo risalirebbe alla metà del II secolo dopo Cristo e fu identificato grazie a un rilie­vo in stucco raffigurante proprio il dio nell’atto di sacrificare un toro.


Un altro tempio dedicato a Mitra fu edificato all’interno dell’antica caverna di Piedigrotta; il bassorilievo, simile a quello appena descritto, fu rinvenuto in epoca vicereale nella Crypta che la leggenda vuole fosse stata edificata in una sola notte da Virgilio. 
I lavori di ampliamento della galleria, tuttavia, oltre a comprometterne la stabilità hanno causato la scomparsa del mitreo; quanto al bassorilievo, l’immagine di un giovane e riccioluto dio con calzoni, tunica, mantello e il consueto berretto frigio, si trova oggi al Museo Nazionale di Napoli.
Del culto mitraico il Cristianesimo delle origini mutuò molti simboli e liturgie: la data del 25 dicembre, giorno simbolico della nascita di Cristo, è la stessa celebrata dai seguaci di Mithra per ricordare la nascita del loro dio, e comune è anche la simbologia della grotta, palcoscenico di riti sacri e culti misterici per entrambe le religioni.
Questo spiegherebbe anche la forte tradizione dei presepi che si tramanda da secoli nella città partenopea e che forse ha un richiamo dal passato che affonda proprio nel culto mitraico.
Tracce di culti e rituali esoterici furono scoperte anche nelle grotte scavate nel tufo del monte Echia da coloni greci; a poca di­stanza da via Chiaia e da piazza dei Martiri, nella enorme cavità di via Santa Maria a Cappella Vecchia, dopo il ritrovamento di un’immagine di Mitra, è stata ipotizzata la presenza di un altro tempio dedicato al culto del dio Sole indo-iranico. 
L’area occupata dall’antro fu poi trasformata in una fabbrica di cordame ( e per questo poi denominata Grotta dei Funari, o degli Spagari) e infine in un garage. 
Dubitiamo però che gli automobilisti di passaggio, distratti nella frenesia della vita moderna, ne siano a conoscenza.

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