"Lo uccisi in sogno, poi non potei far altro che sopprimerlo sul serio. Inevitabilmente."
C’è un filo nero, ironico, crudele e tragicomico, che attraversa Delitti esemplari di Max Aub: è il filo della colpa quotidiana, della rabbia sorda, dell’impulso inconfessabile.
In meno di cento pagine e in oltre trecento microconfessioni, Max Aub ci catapulta in un mondo surreale e fin troppo reale, dove gli assassinii si consumano come sbadigli repressi, come nervi che saltano davanti all’idiozia del mondo, come piccoli atti di autodifesa psicotica contro la banalità del male.
Un libro che è insieme catalogo di aberrazioni e specchio deformante del nostro inconscio.
Aub non racconta un mondo possibile: racconta il nostro.
Ma lo fa con la lente dell’assurdo e la penna del moralista travestito da buffone. Delitti esemplari è uno di quei testi che scardinano ogni certezza morale, svelano la brutalità delle buone maniere, ridono sotto i baffi mentre ci osservano, perché ciò che riteniamo ''inaccettabile'' è già accaduto nella nostra testa. Una, dieci, cento volte.
Per comprendere Delitti esemplari, bisogna prima capire chi era Max Aub: scrittore spagnolo nato a Parigi nel 1903, esule per vocazione e per necessità, comunista per convinzione ma mai dogmatico, ebreo, antifranchista, internato in un campo di concentramento francese, profugo in Messico.
Non fu mai del tutto ''a casa'', e forse fu proprio questo suo sguardo da straniero permanente a rendere la sua scrittura così spietatamente lucida.
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Max Aub |
Autore prolifico e difficile da incasellare in una specifica categoria, Max Aub fu drammaturgo, narratore, poeta e testimone.
Il suo ciclo più ambizioso è probabilmente ''Il labirinto magico'', un ciclo di sei romanzi sulla guerra civile spagnola che però non gli valsero, in vita, il posto d’onore nella letteratura iberica.
Troppo libero, troppo ibrido, troppo poco incline alla mitologia nazionale.
Delitti esemplari nasce in esilio, e si sente: è un libro senza patria, che parla la lingua universale dell’odio sottopelle. È come se un alieno avesse registrato le frasi più sincere che un umano non dirà mai, e le avesse trascritte, una dopo l’altra, con il tono scanzonato di chi ha già superato ogni illusione sulla bontà del mondo.
"Cominciò a mescolare il caffellatte col cucchiaino.
Il liquido arrivava fino allʹorlo, sollevato dallʹazione violenta dellʹutensile di alluminio.
Il bicchiere era ordinario, il bar scadente, il cucchiaino opaco, consumato dallʹuso.
Si udiva il rumore del metallo contro il vetro.
Tin, tin, tin, tin.
E il caffellatte girava e rigirava, con un gorgo nel mezzo.
Un Maelstrom.
Io ero seduto di fronte. Il bar era affollato.
Lʹuomo continuava a girare e rigirare, immobile, sorridente, e mi guardava.
Qualcosa mi si rivoltava dentro.
Lo guardai in modo tale che si sentì in obbligo di giustificarsi: Lo zucchero non si è ancora sciolto.
Per dimostrarmelo dette dei colpetti sul fondo del bicchiere.
Subito riprese con rinnovata energia a mescolare metodicamente il beveraggio.
Gira e rigira, senza fermarsi mai, e il rumore del cucchiaino sul bordo del vetro.
Tan, tan, tan.
Di seguito, di seguito, senza posa, eternamente.
Gira, e gira, e gira, e rigira.
Mi guardava sorridendo.
Allora estrassi la pistola e sparai."
Ufficialmente, Delitti esemplari è una raccolta di brevi frasi, monologhi, confessioni. Ognuna descrive un omicidio, ma non un omicidio ''importante'': piuttosto, uccisioni assurde, dettate da motivi futili, episodi di collera repressa o di fastidio irrimediabile.
Una forma estrema di black humor che si trasforma, lettura dopo lettura, in un grido collettivo.
Tutti i delitti sono “esemplari” perché compiuti per ragioni minime, spesso ridicole, ma raccontati con tono fiero, definitivo, a volte perfino poetico.
Non si tratta di pentimenti. Non c’è processo, né difesa.
Solo la cruda e comica esposizione dell’atto e della sua motivazione.
In questo senso, il libro è un catalogo: come un bestiario medievale delle pulsioni, un'enciclopedia della vendetta insignificante. Ma non c’è nulla di medievale nella forma. L’opera è modernissima, concisa, frammentaria. È Twitter prima di Twitter. È Kafka che incontra i Monty Python.
"Faccio il barbiere. Può capitare a chiunque. Oso persino dire che sono un buon barbiere. Ognuno ha le sue manie: a me danno fastidio i brufoli.
Capitò così: mi accinsi a radere tranquillamente, insaponai con destrezza, affilai il rasoio sulla cinghia, lo addolcii sul palmo della mano. Io sono un buon barbiere! Non ho mai scorticato nessuno! Inoltre quellʹuomo non aveva neppure una barba molto fitta.
Però aveva i brufoli.
Riconosco che quel foruncoletto non aveva niente di particolare.
Ma a me danno fastidio; mi danno ai nervi, mi rimescolano il sangue.
Urtai nel primo senza alcun inconveniente: il secondo sanguinò alla base.
Non so che mi accadde a quel punto, ma credo che fu una cosa naturale: allargai la ferita e poi, senza poterci far nulla, con una rasoiata gli tagliai di netto la testa."
La potenza di Delitti esemplari risiede nella sua struttura reiterativa: ogni frase, ogni micro-racconto, è un colpo secco.
Ma nel loro accumulo, nella loro valanga crescente, queste confessioni diventano più che una gag. Si trasformano in un inquietante ritratto dell’animo umano, fatto di frustrazione, disagio, idiosincrasie.
Lettore dopo lettore, pagina dopo pagina, il meccanismo cambia.
All’inizio si ride.
Poi si ride un po’ meno.
Poi si pensa.
Poi si ride ancora, ma con la mano davanti alla bocca.
Infine ci si scopre a chiedersi: ''Anch’io... l’ho pensato, vero?''.
Perché Delitti esemplari agisce sul nostro inconscio come un siero della verità: porta a galla pensieri che tutti abbiamo avuto, la voglia di strangolare un conoscente logorroico, il desiderio di vendetta contro un insegnante umiliante, l’intolleranza verso il vicino che mastica a bocca aperta.
Non si tratta di veri desideri omicidi, ma del loro riflesso grottesco.
E Max Aub li mette in fila come se stesse scrivendo un inventario dell’anima.
In una società che sublima tutto, Max Aub ci sbatte in faccia l’inesprimibile.
E lo fa con una lingua semplice, tagliente, disarmante. Non ci concede riparo nella complessità: ci lascia nudi davanti alla risata e alla colpa.
Dietro l’apparente assurdità delle confessioni, Delitti esemplari è anche una feroce satira della società borghese. Le motivazioni dei delitti non sono mai politiche, sociali o economiche: sono sempre piccole, personali, ridicolmente quotidiane.
Proprio per questo, sono le più pericolose.
Aub ci dice che la violenza non è solo figlia delle ideologie, ma delle frustrazioni accumulate nel vivere “normale”.
''Era scemo.
Gli spiegai e rispiegai tre volte la strada da fare, in modo chiarissimo.
Era molto semplice, non aveva che da attraversare il Viale della Riforma all’altezza della quinta traversa.
E tutte e tre le volte si confuse nel ripetere la spiegazione.
Gli feci una piantina chiarissima.
Restò là a guardarmi con aria interrogativa: E poi… Oddio, non ho capito.
E si strinse nelle spalle.
C’era da ammazzarlo.
E io lo feci.
Se mi dispiace o no, è un’altra faccenda.''
Il protagonista implicito di questo libro è il “cittadino medio”: l’uomo civilizzato, l’impiegato, il docente, la casalinga, il passante. Tutti loro hanno un segreto che non ammetteranno mai. E Aub lo fa parlare per loro.
L’omicidio diventa così una metafora della rottura dell’ordine borghese. Ma non in senso rivoluzionario: in senso nevrotico.
Come se l’uomo moderno, educato alla repressione, non potesse più gestire la rabbia e la sublimasse nell’immaginazione di atti estremi. Delitti mentali. Delitti interiori. Delitti ''esemplari'' nel senso che tutti li abbiamo pensati, ma pochi li abbiamo pronunciati.
In questo senso, Delitti esemplari è anche una critica del moralismo. Il libro non è amorale: è post-morale.
Non promuove la violenza, ma ne mostra la radice grottesca, comica e assurda.
E nel farlo, disinnesca la pretesa di purezza che la società civile si attribuisce.
Il cittadino modello? È un killer represso.
Il libro si colloca perfettamente nel solco della letteratura dell'assurdo, in compagnia di Ionesco, Beckett, condividendo con loro la capacità di mettere a nudo il nonsenso del reale, ma facendolo con un tono farsesco che è tutto iberico, tutto latino: un umorismo tragico che si regge sul paradosso.
Dal punto di vista psicoanalitico, il libro potrebbe essere letto come una lunga seduta freudiana in cui l’Es prende il sopravvento e si confessa senza filtri. Non è un caso che molti delitti sembrino scaturire da traumi familiari, repressioni infantili, relazioni frustranti. Il killer-tipo di Aub è il risultato della nevrosi moderna.
Ma più che Freud, il vero riferimento implicito sembra essere Georges Bataille, con la sua idea che il crimine e l’eccesso siano forme di verità superiore.
Solo che Aub non celebra l’eccesso: lo ridicolizza.
Non lo sacralizza: lo rende banale.
''Scivolai e caddi.
Colpa di una buccia d’arancia.
C’era gente, e tutti si misero a ridere.
Soprattutto quella del chiosco dei fiori, che mi piaceva tanto.
La pietra la colpì proprio in fronte, tra i due sopraccigli: ho sempre avuto un’ottima mira.
Cadde a gambe larghe, tra i suoi fiori in mostra.''
Il gesto che compie Max Aub in Delitti esemplari è profondamente rivoluzionario: ci costringe a ridere della morte.
E non della morte eroica, drammatica, catartica.
Ma della morte più stupida, più accidentale, più insensata.
Di quella che si consuma per un cucchiaino fuori posto o una frase fuori luogo.
In questo, Aub è un autore che ha piena coscienza del Novecento: ha visto guerre, campi, torture, esili. E sa che non c’è più nulla di sacro. Sa che il crimine non è solo prerogativa dei mostri, ma anche delle persone normali.
Il suo umorismo è quindi una forma di igiene mentale: ridere del peggio per non soccombervi. Trasformare il buio in un gioco, perché il buio è già qui.
Eppure, c’è anche un fondo di tenerezza in tutto ciò. Perché dietro ogni delitto, c’è un disagio umano. Una sofferenza. Una solitudine. Un’incomprensione.
Leggendo Delitti esemplari, ci si accorge che la violenza nasce spesso dall’incapacità di comunicare. Dal sentirsi ignorati, derisi, annullati.
I colpevoli sono vittime.
E viceversa.
Aub scriveva nel 1956, ma il suo libro è stranamente attuale. Anzi, potremmo dire che è un’opera in anticipo sui tempi. La frammentarietà del testo, la brevità fulminante dei ''post'', l’accumulazione ossessiva di voci: tutto fa pensare al nostro mondo digitale.
Su Internet, Delitti esemplari sarebbe virale.
Lo è, in un certo senso, nelle sue versioni meme, citate qua e là da amanti del dark humor, adattato in forma teatrale, persino trasformato in illustrazioni grafiche.
L’opera ha ispirato scrittori, drammaturghi, performer. E resta uno dei più originali esempi di prosa umoristica dell’intera letteratura spagnola del XX secolo.
Un libro che, pur restando ai margini del canone, ha influenzato chiunque abbia provato a scrivere racconti brevissimi, paradossali, crudeli.
Delitti esemplari è un libro che lascia il segno.
Non perché sveli qualcosa di nuovo sull’animo umano, ma perché ci obbliga a guardarlo da una prospettiva diversa. Aub ci mette davanti uno specchio rotto: in ognuno dei suoi frammenti c’è un pezzo della nostra mostruosità quotidiana. Ma ci permette di riderne. Ed è già qualcosa.
Nel mondo di Aub, la giustizia non è un tema. Il perdono neppure.
Conta solo il gesto, l’impulso, la parola. Ho ucciso.
Perché non ne potevo più.
Perché mi dava fastidio.
Perché sì.
E allora leggiamolo con la consapevolezza che ogni confessione è anche una liberazione. Che ogni risata è una catarsi. Che ogni micro-omicidio è un’allegoria.
Perché forse, per sopravvivere, abbiamo bisogno anche di questo: di ridere della nostra ferocia, di accettare il nostro buio, di trovare bellezza perfino nella follia.
O come avrebbe detto Aub: Ho scritto questo libro. Perché altrimenti, avrei ucciso qualcuno.
''Da quando era nato, quel moccioso non faceva che piangere, la mattina, la sera, la notte.
Quando lo staccavano, quando gli davano il biberon e quando no, quando lo passeggiavano e quando no, quando lo cullavano, quando gli facevano il bagno, quando lo cambiavano, quando lo portavano a spasso, e quando lo riportavano a casa.
E io dovevo finire quell’articolo.
Avevo promesso di consegnarlo alle dodici.
E io sono di parola.
E questo marmocchio che piange, piange e piange.
E sua madre… Beh, di sua madre meglio non parlarne.
Lo gettai dalla finestra.
Vi assicuro che non c’era altra scelta.''
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