Non posso farci niente.
Ogni volta che guardo questa scena, oltre a ridere con gusto, associo la famosa banana del veterinario con quella creata da Andy Warhol per la copertina del primo album dei Velvet Underground.
Immagino il veterinario, con i capelli biondo platino alla Andy Warhol, con gli occhiali da sole di Lou Reed, assorto nell'ascolto di questo disco, magari dopo essersi calato un acido o altro...
Pubblicato nel 1967, l'album fu praticamente ignorato da critica e pubblico, straniti nel vedere questi quattro "scappati di casa", con occhiali da sole sempre sul viso e stivaletti a punta, che a modo loro celebravano in anticipo il funerale di quella che era stata la stagione del flower power, cantando di eroina, di degrado urbano, di sesso sadomaso.
Troppo avanti, troppo fuori dal coro, troppo alieni.
Ma è vero anche che, come disse Lester Bangs, se solo 100 persone comprarono quel disco, tutti e 100 poi misero su una band (chiedere ai Modern Lovers, ai Feelies, ai Television).
Perchè quel disco contiene i semi di gran parte dell’evoluzione del rock dei decenni successivi, dal post-punk allo shoegaze, al noise, al dream pop.
Tutto ciò grazie ad una straordinaria congiunzione astrale che permise l’incontro di 4 personalità artistiche enormi (più due comprimari di lusso) e grazie all’unico posto che poteva fornire l’humus culturale adatto a far crescere fiori nuovi, strani e ammalianti: New York.
E’ a New York che avviene l’incontro tra Lou Reed e John Cale.
Il rocker problematico ossessionato dalla musica e dalla personalità tormentata, con precoci approcci con le droghe e ricoveri psichiatrici a base di elettroshock, e il brillante studente di musica contemporanea, già allievo di John Cage e Lamont Young.
Attrazione fatale tra due mondi all’apparenza incompatibili, la voglia di fare musica insieme che li porta a metter su nel 1964, una band con Sterling Morrison, compagno di università di Reed e Maureen Tucker, batterista androgina dallo stile tribale e minimale.
L’incontro che fa decollare il gruppo però è quello con Andy Warhol.
Il poliedrico artista li prende sotto la sua ala protettiva, li introduce al mondo della sua Factory e li rende parte del suo Exploding Plastic Inevitable Show, che unisce al live show dei VU, la proiezione di film sperimentali di Warhol e le performances di gente come Gerard Malanga e Edie Sedwick.
In più regala (o forse impone) loro Nico, nata Christa Paffgen, attrice e cantante tedesca dall’algido fascino. Dopo il giusto periodo di apprendistato, la band è pronta all’esordio discografico, che avviene il 12 marzo 1967.
Lo stesso Warhol è accreditato, oltre che come autore dell'iconica copertina, come produttore, ma più che dal punto di vista tecnico il suo è stato un ruolo di mentore e catalizzatore di energie. Il disco non avrebbe bisogno di troppe spiegazioni, tutti conoscono la bellezza di brani come Heroin, Venus In Furs, Sunday Morning, I’m Waiting For The Man e i 3 cantati da Nico, Femme Fatale, I’ll Be Your Mirror e All Tomorrow’s Parties. Chi non li conosce è assolutamente ingiustificato.
Ma anche le restanti canzoni non sono da meno.
There She Goes Again sono i Byrds mai usciti dal garage, la Creation e la Sarah Records immaginati vent’anni prima.
Run, Run, Run crea un ponte ideale tra Bo Diddley e i Gun Club.
The Black Angel’s Death Song, guidata dalla viola di John Cale, è l’archetipo della ballata gotica. European Son unisce in modo magistrale punk, noise, musica concreta e minimalismo.
Simili risultati scaturivano da un’alchimia che, per forza di cose, sarebbe stata difficile da mantenere a lungo, e infatti. Warhol e Nico sono i primi a mollare, Cale lo fa dopo White Light/Withe Heat. Un lento stillicidio che porta fino al paradosso di un disco dei VU senza Lou Reed (l’inutile Squeeze).
Ma la fine della storia non può assolutamente scalfire l’imponenza e l’importanza di questa sorta di monolite kubrickiano del rock, classica opera da portare sull'isola deserta.
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