In un tempo di disorientamento culturale e crisi politica, in cui le parole della politica sembrano sempre più svuotate di senso, torna la domanda: ha ancora senso festeggiare il 25 aprile e il Primo Maggio? Due ricorrenze civili, profondamente radicate nella storia italiana, che rischiano oggi di diventare riti svuotati, cartoline ingiallite di un passato che non parla più al presente. Ma proprio in questa apparente marginalità si cela la loro necessità.
La Festa della Liberazione, celebrata il 25 aprile, commemora la vittoria della Resistenza sul nazifascismo e la fine dell’occupazione tedesca in Italia. Ma non è soltanto una data storica: è un fondamento etico e politico della Repubblica. È la radice da cui germogliano la Costituzione, i diritti civili, la democrazia partecipativa.
Oggi, però, la memoria della Resistenza appare offuscata. Non solo per il naturale passare delle generazioni, ma per un più sottile e pericoloso processo di revisionismo e banalizzazione. I partigiani vengono spesso ridotti a una figura folkloristica, le stragi nazifasciste scompaiono dai programmi scolastici, e il concetto stesso di antifascismo viene considerato come prodotto di una retorica d’altri tempi.
Ma senza memoria storica, non c’è cittadinanza consapevole. E senza una cittadinanza consapevole, la democrazia si svuota, si trasforma in una maschera formale dietro cui si nascondono derive autoritarie e diseguaglianze sempre più marcate.
Festeggiare il 25 aprile oggi non è solo un omaggio al passato: è un gesto di resistenza contemporanea. Significa ribadire che la libertà non è mai acquisita una volta per tutte, e che ogni generazione ha il compito di difenderla, ampliarla, adattarla alle sfide del proprio tempo.
Il Primo Maggio nasce come giornata internazionale dei lavoratori. Una festa laica, nata dal sangue delle lotte operaie, per rivendicare diritti, dignità, condizioni giuste e sicure. In Italia, come nel resto del mondo, è stata per decenni un simbolo di unità e conflitto, un’occasione per ricordare che il lavoro non è solo fatica, ma anche strumento di emancipazione.
Oggi, però, il mondo del lavoro è profondamente cambiato.
La precarietà è diventata la norma. Il lavoro povero è una realtà crescente. Le morti bianche si susseguono in una tragica e inaccettabile normalità. I diritti conquistati sembrano erosi da un mercato sempre più deregolamentato, mentre nuove forme di sfruttamento si affermano con l’alibi della flessibilità.
E allora, cosa resta da celebrare il Primo Maggio? La risposta sta nel tornare a caricare questa giornata del suo significato originario: non una festa svuotata, ma un’occasione di lotta e consapevolezza. Un giorno in cui parlare di nuove tutele, di salario minimo, di riconversione ecologica del lavoro, di giustizia sociale.
Un giorno in cui dare voce a chi lavora senza tutele, a chi sciopera, a chi si organizza, a chi resiste.
Il rischio reale, oggi, è che queste due ricorrenze diventino semplici riti. Giornate in cui si ripetono parole d’ordine stanche, si sfilano per inerzia, si posta qualche frase fatta sui social. Ma la ritualità svuotata è il primo passo verso la rimozione. E la rimozione, nella storia di un popolo, è sempre il preludio della manipolazione.
Per questo è necessario restituire senso e vita a queste celebrazioni. Riappropriarsene dal basso, riempirle di contenuti veri, attuali, urgenti. Farne occasione di dibattito pubblico, di educazione civica diffusa, di ricostruzione di un senso collettivo di appartenenza e di futuro.
Viviamo in un’epoca che ha perso il senso del tempo. L’ideologia dominante è quella del presente eterno, dell’ora e subito, della performance continua. In questo contesto, il passato è visto come un fardello, un peso inutile. Ma è proprio la mancanza di memoria che rende le società più vulnerabili alle manipolazioni.
La politica attuale, nella sua quasi totalità, si nutre e alimenta questa amnesia collettiva. Utilizza slogan vuoti, si rifugia nel marketing identitario, evita i contenuti e le responsabilità. Ecco perché la memoria del 25 aprile e del Primo Maggio è così scomoda: perché obbliga a fare i conti con la complessità, con il conflitto, con le scelte morali.
Dunque sì, ha ancora senso, oggi più che mai, celebrare il 25 aprile e il Primo Maggio. Ma bisogna farlo liberandoli dalla retorica, e recuperandone il senso originario, riconsegnandoli alla loro effettiva natura: quella di giornate di resistenza, di consapevolezza, di progetto collettivo.
Non si tratta di custodire il passato come un cimelio, ma di usarlo come strumento per leggere il presente e costruire il futuro. Perché solo chi conosce le radici della propria libertà è davvero in grado di difenderla.
La memoria, se viva, è un’arma potente. E in tempi come questi, è una delle poche che ci restano per non soccombere al cinismo e all’indifferenza.
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