lunedì 14 luglio 2025

Vietato pensare (in maniera diversa)


C’era una volta la libertà. O almeno l’illusione di poter sbagliare, di dire cose impopolari, di pensare controvento. C’era la satira, la dissacrazione, la licenza poetica, il dubbio cartesiano e il paradosso socratico. Poi è arrivato il nuovo puritanesimo: gentile, inclusivo, sensibile, progressista. E con lui, una lunga scia di paradossi, censure preventive, ridicolaggini virali e un lessico morale che si è sostituito a quello politico. Benvenuti nell’era del “woke gone wild”.

Il termine woke nasce nella comunità afroamericana per indicare la consapevolezza politica rispetto alle discriminazioni razziali. Una parola potente, nobile, carica di storia e dolore. Ma come spesso accade, la sua appropriazione da parte del mainstream l’ha svuotata e rovesciata: da sveglio a nevrotico, da cosciente a ossessivo. 
Oggi woke è diventato sinonimo, per detrattori e sostenitori, di una postura morale inflessibile, che impone nuovi codici di comportamento e pretende l’aderenza a un’ideologia dell’inclusione a senso unico. 
Chi si discosta è un reazionario. O peggio: un nemico.
La cosa più tragica? Che tutto questo nasce da intenzioni condivisibili. Ma come si diceva già ai tempi di Orwell: "Le buone intenzioni sono sempre la scusa preferita dei censori".

Nel 2024, il termine “madre” è stato rimosso da alcuni documenti ufficiali dell’università di Brighton, nel Regno Unito, sostituito da “persona che partorisce”. L’idea era quella di includere le persone transgender, ma il risultato è stato quello di alienare migliaia di donne comuni, madri reali, che hanno letto in questa sostituzione una negazione simbolica del loro stesso corpo.
La neolingua woke è spesso costruita con i migliori propositi, ma si rovescia su sé stessa come un soufflé troppo gonfio: invece di aggiungere significato, lo svuota; invece di allargare il discorso, lo irrigidisce. “Cieco” diventa “persona con visione non convenzionale”; “obeso” diventa “persona con corpi più grandi”; “criminale” diventa “persona che ha vissuto un’esperienza di giustizia penale”
La realtà si eclissa in favore della perifrasi eticamente sterilizzata.


Dietro la semantica, si cela una guerra culturale. Chi usa il linguaggio tradizionale viene trattato come un eretico. 
Anche se ha settant’anni e ha semplicemente detto “signorina”.

Nel 2023, un comico canadese è stato multato per aver preso in giro un ragazzo disabile durante uno show. Il caso è finito alla Corte Suprema. Il diritto alla comicità, alla provocazione, alla “cattiveria” di scena, è stato subordinato al diritto di non sentirsi offesi.
Se la satira non può più urtare, allora non è più satira. 
È educazione civica.
Il comico Dave Chappelle è stato più volte preso di mira per aver ironizzato sull’identità di genere, pur avendo dedicato interi special alla lotta contro il razzismo. 
Ricky Gervais ha ironizzato sul fatto che oggi non si può nemmeno più dire “donna” senza rischiare la gogna. 
Sacha Baron Cohen ha smesso di impersonare Borat, perché — parole sue — “non puoi più far ridere su nulla senza essere linciato”.
La società che una volta celebrava Lenny Bruce o George Carlin oggi chiude i microfoni. E lo fa in nome del rispetto.
La cultura woke non si limita a censurare il presente: riscrive il passato. Romanzi, film, canzoni, persino statue vengono giudicati secondo il metro morale di oggi. Risultato: una gigantesca damnatio memoriae culturale che cancella la complessità per sostituirla con versioni “depurate”.
Nel 2023, le nuove edizioni dei libri per bambini di Roald Dahl hanno sostituito parole come “grasso” o “brutto” con espressioni più neutrali. Persino la celebre “Matilda” è stata rivista per eliminare riferimenti a personaggi storici “problematici”, come Rudyard Kipling. 
È come correggere i dipinti di Goya perché “troppo cruenti”.
La Disney ha aggiunto avvisi di “contenuto sensibile” a classici come Dumbo o Peter Pan. Si parla addirittura di “trigger warning”, cioè di contenuti difficili da maneggiare, immagini o concetti che potrebbero turbare gli spettatori, per Via col vento, Shakespeare e Agatha Christie.
Ma una cultura che pretende di cancellare tutto ciò che non riflette la sensibilità attuale è una cultura che rinuncia al pensiero critico. 
La storia non si riscrive: si studia. 
E si contesta, se serve, con gli strumenti dell’analisi. 
Non con la cesoia.


I campus universitari, un tempo fucine di idee controcorrente, sono oggi tra i luoghi più sorvegliati ideologicamente. 
Nel 2022, la filosofa Kathleen Stock si è dimessa dall’Università del Sussex dopo essere stata accusata di ''transfobia'' per aver sostenuto che il sesso biologico esiste. Il suo campus è stato tappezzato di manifesti che chiedevano il suo allontanamento. Il tutto nel silenzio imbarazzato delle istituzioni accademiche.
Lo spazio sicuro per alcuni diventa gabbia per altri. E così, per proteggere le minoranze, sacrosanto intento,  si finisce per zittire chi non si conforma al linguaggio approvato.
Nel 2024, in California, un’azienda ha chiesto ai dipendenti di non usare più espressioni come ''brainstorming'' (potrebbe offendere chi soffre di epilessia) o ''guru'' (appropriazione culturale). Un’università americana ha bandito il termine ''picnic'', in quanto ritenuto legato a linciaggi razziali. In Svezia, alcuni musei hanno smesso di chiamare le mummie in tal modo, optando per ''resti umani imbalsamati'' per rispetto verso i defunti.
Questi episodi, al confine tra Kafka e i Monty Python, non sono la norma, certo. Ma indicano una deriva reale: quella per cui l’eccesso di sensibilità diventa parodia di sé stesso. E il politicamente corretto smette di essere uno strumento di giustizia per trasformarsi in un regime linguistico.

Nel cuore del pensiero woke non c’è solo la giustizia sociale: c’è un nuovo sistema morale, simile in tutto e per tutto a una religione. Ci sono dogmi (l’identità come verità assoluta), c’è l’eresia (il dissenso), ci sono riti di espiazione (le scuse pubbliche), c’è l’inquisizione digitale (i social), ci sono i martiri e gli untori.
Chi sbaglia paga. Non importa se lo ha fatto trent’anni fa. Non conta il contesto. Basta un tweet, una battuta, un like fuori posto. L’inquisizione woke non perdona. Solo la confessione può salvare, ma non garantisce la redenzione.
Questa forma di moralismo secolarizzato ha preso il posto dell’etica. Non chiede coerenza, ma adesione. Non si misura sull’effetto delle azioni, ma sull’ortodossia del linguaggio.

Monty Python

Le prime vittime di questo clima sono proprio le minoranze che il woke vorrebbe proteggere. Perché se tutto diventa reato, se ogni frase è un campo minato, si crea ostilità. 
Si alimenta la reazione.
Si fornisce materiale ai populisti. 
Peggio: si impedisce il dialogo.
Molte persone, anche sinceramente progressiste, si stanno ritraendo da dibattiti su identità e diritti per paura di sbagliare. Al posto del confronto, l’autocensura. Al posto della crescita, il silenzio.
Nel frattempo, le destre ne approfittano. Usano gli eccessi woke per legittimare retoriche reazionarie. 
E in molti, pur non condividendo il loro programma, iniziano ad annuire.

Criticare il politicamente corretto non significa essere fascisti, misogini o razzisti. Significa difendere il pensiero critico. Significa distinguere tra rispetto e censura, tra inclusione e imposizione. Significa ricordare che l’identità non è un’ideologia. E che la libertà non è negoziabile.
Serve un nuovo umanesimo: che riconosca le lotte per i diritti, ma rifiuti le rigidità dogmatiche. Che valorizzi il linguaggio, ma non lo feticizzi. Che protegga chi è vulnerabile, senza mettere la realtà sotto processo.
Quando una cultura si prende troppo sul serio, finisce per collassare su sé stessa. Il modo migliore per reagire agli eccessi del woke? 
Ridere. Scrivere. Pensare. 
Raccontare storie che mostrino la complessità umana, senza paura del fraintendimento. 
Perché il mondo non è un’aula universitaria. 
È molto più sporco, molto più bello, molto più tragico. E soprattutto: è vivo.
E finché ci sarà qualcuno disposto a scrivere che ''il re è nudo'', allora non tutto è perduto.



venerdì 11 luglio 2025

La Biblioteca di Babele 3: Max Aub - Delitti Esemplari (1956)

 

"Lo uccisi in sogno, poi non potei far altro che sopprimerlo sul serio. Inevitabilmente."

C’è un filo nero, ironico, crudele e tragicomico, che attraversa Delitti esemplari di Max Aub: è il filo della colpa quotidiana, della rabbia sorda, dell’impulso inconfessabile. 
In meno di cento pagine e in oltre trecento microconfessioni, Max Aub ci catapulta in un mondo surreale e fin troppo reale, dove gli assassinii si consumano come sbadigli repressi, come nervi che saltano davanti all’idiozia del mondo, come piccoli atti di autodifesa psicotica contro la banalità del male. 
Un libro che è insieme catalogo di aberrazioni e specchio deformante del nostro inconscio.
Aub non racconta un mondo possibile: racconta il nostro. 
Ma lo fa con la lente dell’assurdo e la penna del moralista travestito da buffone. Delitti esemplari è uno di quei testi che scardinano ogni certezza morale, svelano la brutalità delle buone maniere, ridono sotto i baffi mentre ci osservano, perché ciò che riteniamo ''inaccettabile'' è già accaduto nella nostra testa. Una, dieci, cento volte.

Per comprendere Delitti esemplari, bisogna prima capire chi era Max Aub: scrittore spagnolo nato a Parigi nel 1903, esule per vocazione e per necessità, comunista per convinzione ma mai dogmatico, ebreo, antifranchista, internato in un campo di concentramento francese, profugo in Messico. 
Non fu mai del tutto ''a casa'', e forse fu proprio questo suo sguardo da straniero permanente a rendere la sua scrittura così spietatamente lucida.

Max Aub

Autore prolifico e difficile da incasellare in una specifica categoria, Max Aub fu drammaturgo, narratore, poeta e testimone. 
Il suo ciclo più ambizioso è probabilmente ''Il labirinto magico'', un ciclo di sei romanzi sulla guerra civile spagnola che però non gli valsero, in vita, il posto d’onore nella letteratura iberica.
Troppo libero, troppo ibrido, troppo poco incline alla mitologia nazionale.
Delitti esemplari nasce in esilio, e si sente: è un libro senza patria, che parla la lingua universale dell’odio sottopelle. È come se un alieno avesse registrato le frasi più sincere che un umano non dirà mai, e le avesse trascritte, una dopo l’altra, con il tono scanzonato di chi ha già superato ogni illusione sulla bontà del mondo.

"Cominciò a mescolare il caffellatte col cucchiaino. 
Il liquido arrivava fino allʹorlo, sollevato dallʹazione violenta dellʹutensile di alluminio. 
Il bicchiere era ordinario, il bar scadente, il cucchiaino opaco, consumato dallʹuso. 
Si udiva il rumore del metallo contro il vetro. 
Tin, tin, tin, tin. 
E il caffellatte girava e rigirava, con un gorgo nel mezzo. 
Un Maelstrom. 
Io ero seduto di fronte. Il bar era affollato. 
Lʹuomo continuava a girare e rigirare, immobile, sorridente, e mi guardava. 
Qualcosa mi si rivoltava dentro. 
Lo guardai in modo tale che si sentì in obbligo di giustificarsi: Lo zucchero non si è ancora sciolto. 
Per dimostrarmelo dette dei colpetti sul fondo del bicchiere. 
Subito riprese con rinnovata energia a mescolare metodicamente il beveraggio. 
Gira e rigira, senza fermarsi mai, e il rumore del cucchiaino sul bordo del vetro. 
Tan, tan, tan. 
Di seguito, di seguito, senza posa, eternamente. 
Gira, e gira, e gira, e rigira. 
Mi guardava sorridendo. 
Allora estrassi la pistola e sparai."

Ufficialmente, Delitti esemplari è una raccolta di brevi frasi, monologhi, confessioni. Ognuna descrive un omicidio, ma non un omicidio ''importante'': piuttosto, uccisioni assurde, dettate da motivi futili, episodi di collera repressa o di fastidio irrimediabile. 
Una forma estrema di black humor che si trasforma, lettura dopo lettura, in un grido collettivo.
Tutti i delitti sono “esemplari” perché compiuti per ragioni minime, spesso ridicole, ma raccontati con tono fiero, definitivo, a volte perfino poetico. 
Non si tratta di pentimenti. Non c’è processo, né difesa. 
Solo la cruda e comica esposizione dell’atto e della sua motivazione.
In questo senso, il libro è un catalogo: come un bestiario medievale delle pulsioni, un'enciclopedia della vendetta insignificante. Ma non c’è nulla di medievale nella forma. L’opera è modernissima, concisa, frammentaria. È Twitter prima di Twitter. È Kafka che incontra i Monty Python. 


"Faccio il barbiere. Può capitare a chiunque. Oso persino dire che sono un buon barbiere. Ognuno ha le sue manie: a me danno fastidio i brufoli.
Capitò così: mi accinsi a radere tranquillamente, insaponai con destrezza, affilai il rasoio sulla cinghia, lo addolcii sul palmo della mano. Io sono un buon barbiere! Non ho mai scorticato nessuno! Inoltre quellʹuomo non aveva neppure una barba molto fitta.
Però aveva i brufoli. 
Riconosco che quel foruncoletto non aveva niente di particolare. 
Ma a me danno fastidio; mi danno ai nervi, mi rimescolano il sangue.
Urtai nel primo senza alcun inconveniente: il secondo sanguinò alla base. 
Non so che mi accadde a quel punto, ma credo che fu una cosa naturale: allargai la ferita e poi, senza poterci far nulla, con una rasoiata gli tagliai di netto la testa."

La potenza di Delitti esemplari risiede nella sua struttura reiterativa: ogni frase, ogni micro-racconto, è un colpo secco. 
Ma nel loro accumulo, nella loro valanga crescente, queste confessioni diventano più che una gag. Si trasformano in un inquietante ritratto dell’animo umano, fatto di frustrazione, disagio, idiosincrasie.
Lettore dopo lettore, pagina dopo pagina, il meccanismo cambia. 
All’inizio si ride. 
Poi si ride un po’ meno. 
Poi si pensa. 
Poi si ride ancora, ma con la mano davanti alla bocca. 
Infine ci si scopre a chiedersi: ''Anch’io... l’ho pensato, vero?''.

Perché Delitti esemplari agisce sul nostro inconscio come un siero della verità: porta a galla pensieri che tutti abbiamo avuto, la voglia di strangolare un conoscente logorroico, il desiderio di vendetta contro un insegnante umiliante, l’intolleranza verso il vicino che mastica a bocca aperta. 
Non si tratta di veri desideri omicidi, ma del loro riflesso grottesco. 
E Max Aub li mette in fila come se stesse scrivendo un inventario dell’anima.
In una società che sublima tutto, Max Aub ci sbatte in faccia l’inesprimibile. 
E lo fa con una lingua semplice, tagliente, disarmante. Non ci concede riparo nella complessità: ci lascia nudi davanti alla risata e alla colpa.
Dietro l’apparente assurdità delle confessioni, Delitti esemplari è anche una feroce satira della società borghese. Le motivazioni dei delitti non sono mai politiche, sociali o economiche: sono sempre piccole, personali, ridicolmente quotidiane. 
Proprio per questo, sono le più pericolose. 
Aub ci dice che la violenza non è solo figlia delle ideologie, ma delle frustrazioni accumulate nel vivere “normale”.

''Era scemo. 
Gli spiegai e rispiegai tre volte la strada da fare, in modo chiarissimo. 
Era molto semplice, non aveva che da attraversare il Viale della Riforma all’altezza della quinta traversa. 
E tutte e tre le volte si confuse nel ripetere la spiegazione. 
Gli feci una piantina chiarissima. 
Restò là a guardarmi con aria interrogativa: E poi… Oddio, non ho capito. 
E si strinse nelle spalle. 
C’era da ammazzarlo. 
E io lo feci. 
Se mi dispiace o no, è un’altra faccenda.''

Il protagonista implicito di questo libro è il “cittadino medio”: l’uomo civilizzato, l’impiegato, il docente, la casalinga, il passante. Tutti loro hanno un segreto che non ammetteranno mai. E Aub lo fa parlare per loro.
L’omicidio diventa così una metafora della rottura dell’ordine borghese. Ma non in senso rivoluzionario: in senso nevrotico. 
Come se l’uomo moderno, educato alla repressione, non potesse più gestire la rabbia e la sublimasse nell’immaginazione di atti estremi. Delitti mentali. Delitti interiori. Delitti ''esemplari'' nel senso che tutti li abbiamo pensati, ma pochi li abbiamo pronunciati.
In questo senso, Delitti esemplari è anche una critica del moralismo. Il libro non è amorale: è post-morale. 
Non promuove la violenza, ma ne mostra la radice grottesca, comica e assurda. 
E nel farlo, disinnesca la pretesa di purezza che la società civile si attribuisce. 
Il cittadino modello? È un killer represso.


Il libro si colloca perfettamente nel solco della letteratura dell'assurdo, in compagnia di Ionesco, Beckett, condividendo con loro la capacità di mettere a nudo il nonsenso del reale, ma facendolo con un tono farsesco che è tutto iberico, tutto latino: un umorismo tragico che si regge sul paradosso.
Dal punto di vista psicoanalitico, il libro potrebbe essere letto come una lunga seduta freudiana in cui l’Es prende il sopravvento e si confessa senza filtri. Non è un caso che molti delitti sembrino scaturire da traumi familiari, repressioni infantili, relazioni frustranti. Il killer-tipo di Aub è il risultato della nevrosi moderna.
Ma più che Freud, il vero riferimento implicito sembra essere Georges Bataille, con la sua idea che il crimine e l’eccesso siano forme di verità superiore. 
Solo che Aub non celebra l’eccesso: lo ridicolizza. 
Non lo sacralizza: lo rende banale. 

''Scivolai e caddi. 
Colpa di una buccia d’arancia. 
C’era gente, e tutti si misero a ridere. 
Soprattutto quella del chiosco dei fiori, che mi piaceva tanto. 
La pietra la colpì proprio in fronte, tra i due sopraccigli: ho sempre avuto un’ottima mira. 
Cadde a gambe larghe, tra i suoi fiori in mostra.''

Il gesto che compie Max Aub in Delitti esemplari è profondamente rivoluzionario: ci costringe a ridere della morte. 
E non della morte eroica, drammatica, catartica. 
Ma della morte più stupida, più accidentale, più insensata. 
Di quella che si consuma per un cucchiaino fuori posto o una frase fuori luogo.
In questo, Aub è un autore che ha piena coscienza del Novecento: ha visto guerre, campi, torture, esili. E sa che non c’è più nulla di sacro. Sa che il crimine non è solo prerogativa dei mostri, ma anche delle persone normali. 
Il suo umorismo è quindi una forma di igiene mentale: ridere del peggio per non soccombervi. Trasformare il buio in un gioco, perché il buio è già qui.
Eppure, c’è anche un fondo di tenerezza in tutto ciò. Perché dietro ogni delitto, c’è un disagio umano. Una sofferenza. Una solitudine. Un’incomprensione. 
Leggendo Delitti esemplari, ci si accorge che la violenza nasce spesso dall’incapacità di comunicare. Dal sentirsi ignorati, derisi, annullati. 
I colpevoli sono vittime. 
E viceversa.

Aub scriveva nel 1956, ma il suo libro è stranamente attuale. Anzi, potremmo dire che è un’opera in anticipo sui tempi. La frammentarietà del testo, la brevità fulminante dei ''post'', l’accumulazione ossessiva di voci: tutto fa pensare al nostro mondo digitale.
Su Internet, Delitti esemplari sarebbe virale. 
Lo è, in un certo senso, nelle sue versioni meme, citate qua e là da amanti del dark humor, adattato in forma teatrale, persino trasformato in illustrazioni grafiche. 
L’opera ha ispirato scrittori, drammaturghi, performer. E resta uno dei più originali esempi di prosa umoristica dell’intera letteratura spagnola del XX secolo. 
Un libro che, pur restando ai margini del canone, ha influenzato chiunque abbia provato a scrivere racconti brevissimi, paradossali, crudeli. 

Delitti esemplari è un libro che lascia il segno. 
Non perché sveli qualcosa di nuovo sull’animo umano, ma perché ci obbliga a guardarlo da una prospettiva diversa. Aub ci mette davanti uno specchio rotto: in ognuno dei suoi frammenti c’è un pezzo della nostra mostruosità quotidiana. Ma ci permette di riderne. Ed è già qualcosa.
Nel mondo di Aub, la giustizia non è un tema. Il perdono neppure. 
Conta solo il gesto, l’impulso, la parola. Ho ucciso.
Perché non ne potevo più. 
Perché mi dava fastidio. 
Perché sì.

E allora leggiamolo con la consapevolezza che ogni confessione è anche una liberazione. Che ogni risata è una catarsi. Che ogni micro-omicidio è un’allegoria. 
Perché forse, per sopravvivere, abbiamo bisogno anche di questo: di ridere della nostra ferocia, di accettare il nostro buio, di trovare bellezza perfino nella follia.
O come avrebbe detto Aub: Ho scritto questo libro. Perché altrimenti, avrei ucciso qualcuno.

''Da quando era nato, quel moccioso non faceva che piangere, la mattina, la sera, la notte. 
Quando lo staccavano, quando gli davano il biberon e quando no, quando lo passeggiavano e quando no, quando lo cullavano, quando gli facevano il bagno, quando lo cambiavano, quando lo portavano a spasso, e quando lo riportavano a casa. 
E io dovevo finire quell’articolo. 
Avevo promesso di consegnarlo alle dodici. 
E io sono di parola. 
E questo marmocchio che piange, piange e piange. 
E sua madre… Beh, di sua madre meglio non parlarne. 
Lo gettai dalla finestra. 
Vi assicuro che non c’era altra scelta.''

mercoledì 9 luglio 2025

La Pace oscena


''Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant'' (Dove fanno il deserto, lo chiamano pace)
                                                                                                                            (Tacito - De Agricola)

C'è un'immagine che più di ogni altra riassume il delirio politico e morale del nostro tempo: Benjamin Netanyahu che porge una lettera a Donald Trump, nella residenza dorata di Mar-a-Lago, candidandolo ufficialmente al Premio Nobel per la pace. È accaduto davvero. È accaduto mentre a Gaza, nello stesso momento, centinaia di migliaia di esseri umani si ammassano in tendopoli di fortuna, senza acqua, senza luce, senza medicine, con le ossa dei morti che spuntano dalla sabbia come ammonimenti biblici. È accaduto mentre l’Occidente civile, quello che si vanta dei suoi valori democratici, voltava lo sguardo o peggio ancora applaudiva. 
Netanyahu, con il volto fiero e il sorriso compiaciuto, ha elogiato Trump per il suo “straordinario contributo alla stabilità globale”. 
Lo ha fatto nel pieno di un’offensiva militare su Gaza che ha già ucciso più di 57.000 persone, secondo le stime di diverse agenzie internazionali, un numero che include migliaia di donne e bambini. In una guerra che ha visto l’esercito israeliano radere al suolo ospedali, scuole, centrali elettriche e impianti idrici, in aperta violazione del diritto internazionale umanitario. 
In uno scenario dove la Corte Penale Internazionale ha già emesso mandati d’arresto contro lo stesso Netanyahu, accusandolo di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e uso deliberato della fame come arma. 


E mentre accade tutto questo, ecco che l’uomo al centro di questa carneficina propone Trump, il presidente che ha trasferito l’ambasciata americana a Gerusalemme scatenando un’escalation di tensione, che ha tagliato i fondi all’UNRWA, che ha bombardato l’Iran e ha appoggiato senza riserve la linea più dura di Tel Aviv, come degno erede di Martin Luther King, Desmond Tutu, Elie Wiesel e Malala. Una farsa tragica, una sceneggiatura distopica in cui i ruoli sono rovesciati. 
La motivazione ufficiale cita gli Accordi di Abramo, firmati nel 2020 da Israele con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, con la regia dell’amministrazione Trump. 
Ma basterà leggere i rapporti delle ONG per capire che si tratta di normalizzazioni diplomatiche tra élite autoritarie, spesso imposte con incentivi economici o forniture militari, e che nulla hanno a che vedere con la pace tra i popoli. 
I palestinesi non sono neanche stati consultati. 
Anzi, quegli accordi sono stati per loro l’ennesima conferma del tradimento, dell’isolamento, della negazione storica di ogni diritto. 
Lungi dal pacificare, hanno rafforzato il blocco sunnita anti-iraniano e accelerato la corsa agli armamenti nell’area. Nel momento in cui Netanyahu loda quegli accordi come prova di ''leadership coraggiosa'' da parte di Trump, dimentica o forse finge di dimenticare che quello stesso Trump ha promosso l’annessione di territori occupati, ha bloccato qualsiasi mediazione internazionale con i palestinesi e ha incoraggiato apertamente l’estrema destra israeliana. 
È il linguaggio orwelliano della diplomazia perversa: si definisce ''pace'' la complicità con l’apartheid, si chiama ''stabilità'' l’eliminazione del nemico, si chiama ''riconoscimento'' l’acquisto del silenzio altrui.
Ma non è finita. 
Durante lo stesso incontro, Trump e Netanyahu hanno discusso apertamente un ''piano per il futuro di Gaza'' che, secondo alcune fonti, prevederebbe il reinsediamento forzato di milioni di palestinesi in altri Paesi, con il supporto logistico americano. 
Un’operazione che sarebbe imposta militarmente e travestita da ''riqualificazione urbanistica'', con Gaza che, come già precedentemente ipotizzato dallo stesso Trump,  verrebbe trasformata in una sorta di hub del turismo mediorientale, una nuova ''Singapore sul Mediterraneo'', come qualcuno l’ha definita con un ghigno. 


In altre parole: espulsione, colonizzazione, esproprio, rimozione fisica del popolo che da decenni resiste a un’occupazione illegittima. Amnesty International ha parlato di un progetto che viola tutte le convenzioni internazionali e che potrebbe configurarsi come pulizia etnica. 
L’ONU ha reagito con una dichiarazione secca: ''La deportazione forzata di civili è un crimine di guerra''. Eppure, in questo contesto, Netanyahu non solo propone Trump per il Nobel, ma si presenta anche come l’artefice di una ''nuova visione di pace''. La stessa pace che Publio Cornelio Tacito, nel suo De Agricola, fa pronunciare al generale calèdone Calgaco, quando cerca di infondere coraggio alle sue truppe prima della battaglia del monte Graupio contro l'esercito romano, con un discorso in cui delinea un'unica alternativa di fronte ai romani, insaziabili dominatori: o libertà o morte.
''Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant" (dove fanno il deserto, lo chiamano pace).

Siamo dunque all’apoteosi del paradosso: un premier accusato di crimini contro l’umanità che propone per il massimo riconoscimento etico un presidente condannato per istigazione all’insurrezione e evasione fiscale. Un duo che ha fatto del cinismo una dottrina, della propaganda una scienza e della violenza una strategia. 
Una pantomima macabra, in cui il Premio Nobel, nato per celebrare chi si è battuto contro le guerre, viene prostituito per finalità elettorali, come moneta di scambio tra due leader politicamente fragili, entrambi sotto processo e in cerca di riabilitazione. 
Una pantomima che offende la memoria di chi ha davvero sacrificato la propria vita per la pace: da Gandhi a Sadat, dal palestinese Arafat all'israeliano Yitzhak Rabin. Ma soprattutto, una pantomima che oscura la verità quotidiana di chi oggi muore sotto le bombe, senza voce, senza telecamere, senza Nobel.


E se qualcuno pensa che questa sia solo una provocazione simbolica, un gioco diplomatico senza conseguenze, basta osservare l’effetto domino che ha già prodotto. 
Dopo Netanyahu, anche il Pakistan, notoriamente antiamericano, ha proposto Trump per il Nobel, rivelando quanto sia malleabile la verità politica e quanto conti, oggi, solo la sopravvivenza geopolitica. La Norvegia, paese ospitante del Comitato per il Nobel, ha espresso preoccupazione ma non ha ancora preso una posizione netta. 
Intanto, nei social e nelle piazze del mondo arabo, la notizia è stata accolta con rabbia, sdegno, risate amare. Decine di vignette circolano con l’immagine di Trump vestito da crociato, o in posa alla Nobel Lecture mentre sullo sfondo scoppiano bombe e bruciano corpi. L’ipocrisia è diventata talmente manifesta da rasentare la pornografia morale.

La verità è che viviamo in un’epoca in cui i premi non premiano più chi merita, ma chi vince. In cui il linguaggio è stato rovesciato: la guerra è umanitaria, la deportazione è sviluppo, la repressione è ordine, la propaganda è informazione. 
E allora sì, il paragone che evoca Hitler che propone Reinhard Heydrich, l'organizzatore della "soluzione finale", per il Nobel, non è più solo una provocazione grottesca. È una diagnosi storica. Quando gli assassini si travestono da pacificatori, quando la pace viene usata come una clava per giustificare la guerra, quando la verità non è più uno strumento di giustizia ma un’arma narrativa, allora siamo entrati nel buio. 
E da quel buio si esce solo con un urlo. 
Forte, scomodo, inascoltato. 
Ma necessario.

lunedì 7 luglio 2025

God only knows: il genio fragile di Brian Wilson


“God only knows what I’d be without you.”
 Questa frase, tanto semplice quanto vertiginosa, racchiude in sé il mistero di Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, recentemente scomparso all’età di 82 anni. E non è solo una dichiarazione d’amore: è una formula musicale, un’architettura acustica, un testamento sonoro di ciò che Wilson ha regalato al mondo. La sua musica, e in particolare l'album "Pet Sounds", ha ridefinito per sempre i confini della pop music, affermandosi come una delle più grandi conquiste artistiche del Novecento.

Nato a Inglewood, California, nel 1942, Brian Wilson crebbe in una casa piena di contraddizioni: da un lato il padre Murry, uomo severo e manipolatore ma anche produttore musicale, dall’altro un ambiente immerso nella spensieratezza del sogno americano postbellico. 
La spiaggia, il sole, il surf: erano questi gli elementi che avrebbero reso i Beach Boys un’icona della cultura pop statunitense degli anni ’60. 
Ma dentro Brian c’era molto più che sabbia e onde. 
C’era Bach, c’era Gershwin, c’erano i suoni della mente e del cuore, i rumori dell’anima.
Quando i Beach Boys iniziarono a emergere nel panorama discografico, la loro immagine era legata a hit spensierate come "Surfin' Safari" e "California Girls"
Eppure, anche allora, dietro quella facciata solare si nascondeva la tensione tra la leggerezza apparente e la profondità emotiva che solo Wilson riusciva a infondere con le sue armonie vocali stratificate e i suoi arrangiamenti complessi.

Beach Boys

L’incontro con la marijuana, l'LSD e le prime crisi psicotiche cambiarono radicalmente il corso della sua esistenza. Brian smise di esibirsi dal vivo e si ritirò nel suo mondo interiore: uno spazio fragile, caotico, ma anche meravigliosamente fertile. 
Fu in quel limbo tra genio e follia che nacque "Pet Sounds", pubblicato nel 1966.
"Pet Sounds" non è semplicemente un disco: è un’opera d’arte totale, un concept album prima che il concetto stesso fosse sdoganato, un diario intimo che parla di amore, disillusione, speranza e perdita. 
È anche un miracolo tecnico: registrato con i migliori session man dell’epoca, e costruito con un lavoro maniacale di sovraincisioni, orchestrazioni raffinatissime e sperimentazioni pionieristiche (campanelli per biciclette, bicchieri di Coca Cola, Theremin e l'abbaiare dei cani tra cui Banana, quello di Wilson).
Tra le sue tracce, "Wouldn’t It Be Nice" apre le danze con una gioia malinconica, "Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder)" commuove con una delicatezza silenziosa, mentre "God Only Knows", che  Paul McCartney definì "la più bella canzone d’amore mai scritta", sfida le convenzioni tonali e strutturali del pop, abbracciando il barocco e l’imprevedibile.
"Pet Sounds" fu accolto in modo tiepido dal pubblico americano, troppo abituato ai ritornelli da spiaggia per comprendere quella nuova direzione. 
Ma nel Regno Unito fu un evento. 
I Beatles lo ascoltarono in loop, e fu proprio "Pet Sounds" a spingere McCartney e compagni a comporre il loro capolavoro "Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band"
Era una sfida reciproca tra giganti, ma anche un atto d’amore: Brian Wilson stava mostrando un altro possibile futuro per la musica pop.


Dopo "Pet Sounds" e il singolo "Good Vibrations", un brano-monolite costato mesi di lavoro e centinaia di migliaia di dollari, la psicologia fragile di Wilson iniziò a crollare sotto il peso del perfezionismo e della pressione commerciale. Il progetto successivo, ''Smile'', venne abbandonato nel caos. 
Brian si ritirò progressivamente, tra dipendenze, psicosi e un controllo medico che confinava con l’abuso.
Per decenni visse come un recluso, obeso, sedato, dimenticato da molti e venerato in silenzio da chi ancora ricordava la sua luce. Eppure, a partire dagli anni ’90, un lento ma tenace processo di resurrezione ebbe inizio: prima il riconoscimento critico, poi la pubblicazione della versione definitiva di ''Smile'' nel 2004, e infine una lunga serie di concerti, collaborazioni e premi che riportarono Brian Wilson al centro del palcoscenico.
Che cos’era, in fondo, il suono di Brian Wilson? Una combinazione irripetibile di innovazione armonica, sensibilità melodica e intuizione emotiva. La sua musica riusciva a raccontare il dolore con la voce dell’innocenza, la solitudine con cori celestiali, il desiderio con strumenti giocattolo.
Non scriveva per stupire, ma per sopravvivere. 
Ogni canzone era un rifugio, un tentativo di dare ordine al caos, di trovare bellezza nel disordine dell’essere. 
In un'epoca in cui il rock cercava la ribellione, Wilson cercava la consolazione.


Brian Wilson ha influenzato generazioni intere di musicisti: dai Beatles ai Radiohead, da Sufjan Stevens ai Flaming Lips. 
Ma la sua eredità più profonda è forse l’idea che la musica pop possa essere arte alta, che la leggerezza non escluda la complessità, che un ragazzo con la mente spezzata possa costruire cattedrali di suono.
La sua scomparsa lascia un vuoto difficile da colmare, ma anche un patrimonio inestimabile. Ascoltare oggi "Pet Sounds" significa entrare in contatto con un’altra dimensione, dove la vulnerabilità è forza, e la bellezza una forma di resistenza.

Quando Paul McCartney lo chiamò "il Mozart del pop", non stava esagerando. Ma forse è ancora più giusto dire che Brian Wilson è stato il Van Gogh della musica: un visionario tormentato, incompreso dai suoi contemporanei, che ha dipinto paesaggi sonori dove nessuno aveva mai osato andare.
La sua voce ci ha insegnato che anche chi non riesce a camminare nel mondo può volare. E che un cuore spezzato, se sa cantare, può guarire anche il nostro.
''Wouldn’t it be nice if we were older?''

Ora che sei altrove, caro Brian, sappiamo che il tempo finalmente ti è amico.
Riposa in pace, genio fragile. La tua musica continua a parlarci.



In memoria di Brian Wilson (1942–2025)



venerdì 4 luglio 2025

Life on Mars? – Il canto alieno dell’anima terrestre





''It’s a god-awful small affair…''

E con una frase semplice e disperata, David Bowie apriva la porta di un universo parallelo. Una ragazza con i capelli color topo, un padre disinteressato, un sogno che svanisce nella banalità del reale. Un’inquadratura che pare tratta da un film di Ken Loach o Mike Leigh, e invece è il prologo di una delle più sfolgoranti esplosioni pop mai registrate.

Quando Life on Mars? venne pubblicata come singolo nel 1973 (dopo essere già apparsa nell’album Hunky Dory del 1971), il mondo non era pronto. 
E forse non lo è ancora. 
Perché ogni volta che risuona quell’attacco pianistico, qualcosa nel cervello si accende. La canzone ti prende per mano, ti mostra un sogno infranto, poi ti trascina in un carosello surreale, poetico, lacerante e maestoso. 
E alla fine ti lascia lì, con una domanda ancora senza risposta: ''Is there life on Mars?''

Per comprendere la genesi di Life on Mars?, dobbiamo compiere un piccolo viaggio all’indietro, fino al 1968. 
Bowie, allora giovane artista emergente ma già frustrato, aveva scritto un testo in inglese per Comme d’habitude, canzone francese di Claude François. Il testo venne rifiutato, ma poco dopo Paul Anka ne scrisse un altro, che divenne My Way nella voce di Frank Sinatra. 
Un successo planetario.
Bowie, ferito nell’orgoglio e desideroso di rispondere con ironia e talento, decise di scrivere una sorta di parodia surrealista di My Way. Il risultato è Life on Mars?
Stessa struttura armonica di base, ma un testo assolutamente delirante, un flusso di immagini pop, riferimenti cinematografici e visioni distopiche. 
Dove Sinatra cantava la dignità individuale, Bowie metteva in scena il crollo del sogno occidentale.
Ecco dunque il primo segreto della canzone: nasce come revenge song, ma diventa molto di più. 
Bowie non solo scrive una replica a My Way; scrive la sua My Way
Un manifesto in forma di delirio poetico.


La costruzione musicale di Life on Mars? è un miracolo di arrangiamento e teatralità. L’attacco pianistico è firmato da Rick Wakeman, il futuro tastierista degli Yes, che imprime al brano quella forza martellante e romantica che lo distingue. È come se Kurt Weill avesse incontrato i Beatles e deciso di scrivere per un musical apocalittico.
Il crescendo orchestrale, curato da Mick Ronson, è monumentale: archi, fiati, batteria e chitarre si sovrappongono in una vertigine emotiva. Bowie canta come se fosse in un teatro vuoto, rivolgendosi agli spettri, ai muri, al vuoto cosmico.
La sua voce, in bilico tra il crooner e il profeta, è la vera protagonista. Modula, grida, sussurra, vibra. È Bowie nel pieno della sua metamorfosi: non più il folk-singer acerbo degli esordi, non ancora il Duca Bianco, ma già un alieno con la sensibilità di un poeta decadente e lo sguardo di un astronauta perso nello spazio della società.

Life on Mars? è uno dei testi più criptici e affascinanti del rock. Parte da una scena quotidiana – una ragazza delusa, il rifiuto paterno, il sogno spezzato – e poi deraglia in una galleria di visioni: Mickey Mouse, cavalli marini, John Lennon, il Congo, i topi in battaglia, la legge che si fa scherno. 
È un mondo in rovina, ma pieno di bellezza.
Il significato? Nessuno e mille. È l’''assurdo teatrale'' della società dei consumi. 
È la cultura pop che diventa oppio. 
È la TV che mostra un mondo che non esiste. 
È l’incapacità di evadere, perfino nei sogni.
E poi c’è quella domanda, sospesa nel titolo, fuori dal testo, come un’eco spaziale: ''Is there life on Mars?'' 
Non è una questione scientifica, è esistenziale. 
C’è vita fuori da questa vita? C’è un senso oltre la farsa? C’è un luogo dove la bellezza non è un’illusione?
Bowie non dà risposte. Le canta.

Curiosamente, ancora oggi molti ascoltatori fanno riferimento a Life on Mars? come una canzone di fantascienza. Certo, Bowie giocava con quell’immaginario: alieni, pianeti, alter ego cosmici. Ma qui non si tratta di fantascienza, quanto di metafora. 
Marte è l’Altrove. È il luogo dove la ragazza immagina di trovare ciò che la Terra le nega.
Il titolo stesso è ironico, surreale, esistenziale. Una domanda che sembra triviale, ma che nasconde abissi. È come se Kafka avesse scritto una canzone per Broadway.


Quando il singolo venne pubblicato nel 1973, Bowie era già Ziggy Stardust. Ma per la copertina di Life on Mars?, decise di presentarsi in una nuova veste: elegante, truccato in modo quasi androgino, con un tailleur celeste. L’immagine, scattata da Brian Duffy, è diventata un’icona.
Non è solo glam: è un manifesto. 
Bowie rifiuta la mascolinità tradizionale, gioca con l’ambiguità, seduce senza etichette. È arte visiva, è performance, è identità fluida. È Bowie che ci dice: non credete a nulla, e credete a tutto.

Life on Mars? è invecchiata splendidamente. Anzi, non è mai invecchiata. Negli anni è stata usata in film, serie TV, documentari. È stata reinterpretata da artisti come Barbra Streisand, Seu Jorge, Trent Reznor. È diventata la colonna sonora del lutto per la morte di Bowie nel 2016.
Nel 2018, durante i funerali di Stephen Hawking, il brano fu suonato come omaggio a colui che più di ogni altro ha cercato la vita su Marte con il pensiero.
Nel 2021, il regista Pablo Larraín l’ha usata nel film Spencer per accompagnare un momento di rottura emotiva e liberazione della principessa Diana. Ed è proprio lì, in quella scena in cui la protagonista abbandona le regole e corre via con i figli, che si sente tutta la potenza della canzone: la fuga dal dolore, il bisogno di un altro mondo.

Quando Bowie la riproponeva dal vivo – soprattutto nei tour degli anni ‘90 e 2000 – lo faceva con un misto di nostalgia e teatralità. La sua voce era più grave, più vissuta. Ma la canzone non perdeva nulla. Anzi, guadagnava in profondità.
Ogni volta che pronunciava ''Take a look at the lawman beating up the wrong guy'', sembrava parlare dei telegiornali del giorno. 
Ogni volta che gridava ''Sailors fighting in the dance hall'', sembrava raccontare l’assurdo eterno della guerra. 
E il finale – Is there life on Mars? – era sempre un pugno nello stomaco e una carezza.

Non esiste una canzone perfetta, ma Life on Mars? ci si avvicina molto. 
È sofisticata ma accessibile. È popolare ma profonda. È kitsch e sublime, come solo David Bowie sapeva essere.
È la dimostrazione che la musica pop, quando è fatta da veri artisti, può sfidare i canoni, giocare con i generi, abbattere le barriere tra arte alta e bassa. Può essere come un dipinto di Dalí suonato da un’orchestra di Broadway sotto l’influenza di Nietzsche.
Cinquantadue anni dopo la sua uscita, Life on Mars? è ancora un punto fermo nella storia della musica moderna. È stata studiata nelle università, analizzata nei testi accademici, inserita in ogni classifica delle canzoni più importanti di sempre.
Ma soprattutto, è ancora amata. 
Da chi l’ha ascoltata nel 1971 e da chi la scopre oggi su Spotify. 
Perché parla a ogni generazione. Perché racconta il dolore, l’assurdo, la bellezza di essere umani. E perché ci fa sentire, per un istante, di poter evadere. 
Di poter credere che, sì, forse da qualche parte c’è life on Mars.

mercoledì 2 luglio 2025

L'Urlo di Boualem Sansal



Il potere odia le parole perché non può governarle.
E allora mette il bavaglio, schiaccia il respiro, trasforma la letteratura in arma e lo scrittore in bersaglio. L’ha fatto ancora una volta: Boualem Sansal, 80 anni, uno dei più grandi autori della modernità postcoloniale, è stato condannato in via definitiva a 5 anni di carcere per aver detto la verità, o almeno la sua verità, sul labirinto storico dell’Algeria.
Il reato? Pensare. Scrivere. Parlare. Avere memoria.
Il processo di appello si è svolto il 1° luglio. 
Pochi minuti, nessuna possibilità reale di difesa, condanna confermata: 5 anni di reclusione e mezzo milione di dinari di multa. 
Non importa se sei vecchio, se sei malato, se hai dato al mondo interi romanzi capaci di sfidare il fondamentalismo, il razzismo, il nazionalismo. 
Il potere vuole il silenzio, non i maestri.
Il vero problema non sono le parole di Boualem Sansal, ma ciò che esse rappresentano: un pensiero non allineato, un sapere non omologato, una coscienza critica che rifiuta l'oblio di Stato.
I capi d’accusa sembrano usciti da un manuale della peggiore repressione anni ’70: attentato all’unità nazionale, offesa alle istituzioni, atti dannosi per l’economia nazionale, propaganda ostile, disseminazione di video
Tutto e niente. 
Un frullato ideologico per imbavagliare un uomo che non si è mai piegato.


Il casus belli? Un’intervista rilasciata nell’ottobre 2024 alla rivista Frontières, in cui Sansal metteva in discussione i confini storici tra Algeria e Marocco, accusando il regime algerino di aver creato artificialmente il Fronte Polisario (organizzazione politica e militare che lotta per l'indipendenza del Sahara Occidentale, territorio rivendicato anche dal Marocco. Fondato nel 1973, il Fronte Polisario ha combattuto contro la Spagna, poi contro il Marocco e la Mauritania per il controllo del Sahara Occidentale. Dal 1976, il Fronte Polisario ha proclamato la Repubblica Democratica Araba Sahrawi (RASD), di cui è considerato il governo in esilio) per destabilizzare il governo di Rabat.
Verità? Opinione? O semplice provocazione intellettuale?
Non importa. 
L’Algeria ufficiale non ammette sfumature. 
Preferisce le galere.
Per capire la violenza di questa condanna, bisogna sapere chi è Boualem Sansal. 
Non uno scrittore qualsiasi. Non un oppositore qualunque. Non un dissidente da talk-show. Ma un artigiano della parola che ha costruito romanzi come barricate, memorie come armi contro l’oblio.
Ha esordito tardi, nel 1999, quando la guerra civile algerina sputava ancora sangue e silenzi. Il suo primo romanzo, Il giuramento dei barbari, era una fossa comune di corpi e coscienze. Da allora, Sansal ha attraversato l’inferno con una penna in mano: fondamentalismo, islamismo, militarismo, colonialismo, antisemitismo, rimozione, ipocrisia. 
Ha detto tutto ciò che non si doveva dire.

Quando pubblicò Il villaggio del tedesco, romanzo che metteva a confronto nazismo e jihadismo islamico, lo Stato lo censurò, ma il mondo cominciò ad ascoltarlo. 
Non fu una voce facile, non piacque alla sinistra francese né alla destra identitaria. Sansal è sempre stato uno straniero ovunque: in Algeria, dove lo odiano; in Francia, dove lo usano; nei salotti letterari, dove si preferisce il decoro alla verità.
Eppure i suoi libri sono stati premiati ovunque: Prix de la Paix a Francoforte, Grand Prix de l’Académie française, Prix Méditerranée.
Persino il premio mondiale Cino Del Duca nel 2025, che ha provocato l’ira fredda delle autorità algerine: “Un riconoscimento al terrorismo mediatico”, dissero.
Come se scrivere fosse un attentato.
Come se raccontare la storia significasse volerla distruggere.
In Algeria il passato è una malattia da rimuovere.
Dopo la guerra d’indipendenza del 1962, il Paese ha costruito una mitologia nazionale fatta di eroismo unilaterale, martirio selettivo, e nemici eterni: la Francia coloniale, il Marocco monarchico, gli intellettuali critici.
Chi prova a raccontare un’altra storia viene etichettato come “traditore”, “venduto all’Occidente”, “nemico interno”.
Ma la verità non ha bandiera.
Sansal lo sapeva bene. Ha sempre rifiutato la retorica dell’indipendenza assoluta, l’auto-assoluzione della Nazione, il culto dei martiri senza analisi dei carnefici. 
Ha denunciato la collusione tra potere militare e fondamentalismo, l’utilizzo dell’Islam politico come strumento di controllo delle masse.
Nel suo saggio Gouverner au nom d’Allah aveva scritto:

''L’islamismo è un totalitarismo travestito da religione: un potere teocratico che soffoca l’individuo per meglio servire lo Stato.''

Un anatema. Una bestemmia. Un suicidio civile.


Nel 2024, Sansal ha ottenuto la cittadinanza francese. Non per gusto borghese, ma perché sua moglie, malata, necessitava di cure migliori. Ha diviso la sua esistenza tra due Paesi che lo hanno entrambi tradito: l’Algeria che lo imprigiona, la Francia che lo esibisce ma non lo difende.
Parigi ha espresso preoccupazione per la condanna. Macron si è limitato a dire che “la libertà di espressione deve essere rispettata”. Poi più nulla. 
Nessuna pressione diplomatica. 
Nessuna reale volontà di salvare l’uomo, oltre che il simbolo.
La verità è che Sansal dà fastidio anche in Europa: troppo laico per gli islamisti, troppo lucido per gli intellettuali salottieri, troppo spietato per chi ama i buoni oppressi e i cattivi oppressori.
E allora eccolo, un vecchio scrittore che nessuno vuole difendere davvero, rinchiuso in una prigione algerina perché ha osato dire che i confini sono una costruzione coloniale, che le guerre non sono mai pure, che l’islamismo e il nazionalismo sono fratelli siamesi.
Dove sono oggi gli intellettuali francesi e europei? Dove sono i premi letterari, le fondazioni per la libertà d’espressione, i festival internazionali? Dove sono gli editoriali dei quotidiani cosiddetti progressisti, le manifestazioni davanti all’ambasciata?
Il caso di Boualem Sansal non è solo una questione algerina. È un termometro geopolitico. È la prova che la libertà di parola è un lusso condizionato, non un diritto universale.
Sansal è scomodo anche in Occidente. È il tipo di autore che dice cose complicate nei tempi sbagliati. Non serve a creare consenso, non semplifica, non rassicura.
E allora è più comodo lasciarlo lì, dentro una cella, con la sua malattia e i suoi libri, in attesa che la morte risolva il problema.
Ma non morirà il suo pensiero.
Perché le parole vere hanno una memoria lunghissima.
L'Urlo è con lui.
Con i dissidenti, i poeti, i narratori dell’inferno.
Con chi si ostina a raccontare anche quando la cella è già pronta.
Con chi ha fatto della letteratura non un mestiere, ma un rischio.

Libertà per Boualem Sansal. Libertà per la verità. Libertà per le parole.





N4POLI C4MPIONE

NAPOLI CONTRO TUTTI. UN TRICOLORE CHE BRUCIA NEI PALAZZI DEL POTERE Hanno provato a sminuirla, hanno cercato in tutti i modi di delegittim...

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