C’era una volta la libertà. O almeno l’illusione di poter sbagliare, di dire cose impopolari, di pensare controvento. C’era la satira, la dissacrazione, la licenza poetica, il dubbio cartesiano e il paradosso socratico. Poi è arrivato il nuovo puritanesimo: gentile, inclusivo, sensibile, progressista. E con lui, una lunga scia di paradossi, censure preventive, ridicolaggini virali e un lessico morale che si è sostituito a quello politico. Benvenuti nell’era del “woke gone wild”.
Il termine woke nasce nella comunità afroamericana per indicare la consapevolezza politica rispetto alle discriminazioni razziali. Una parola potente, nobile, carica di storia e dolore. Ma come spesso accade, la sua appropriazione da parte del mainstream l’ha svuotata e rovesciata: da sveglio a nevrotico, da cosciente a ossessivo.
Oggi woke è diventato sinonimo, per detrattori e sostenitori, di una postura morale inflessibile, che impone nuovi codici di comportamento e pretende l’aderenza a un’ideologia dell’inclusione a senso unico.
Chi si discosta è un reazionario. O peggio: un nemico.
La cosa più tragica? Che tutto questo nasce da intenzioni condivisibili. Ma come si diceva già ai tempi di Orwell: "Le buone intenzioni sono sempre la scusa preferita dei censori".
Nel 2024, il termine “madre” è stato rimosso da alcuni documenti ufficiali dell’università di Brighton, nel Regno Unito, sostituito da “persona che partorisce”. L’idea era quella di includere le persone transgender, ma il risultato è stato quello di alienare migliaia di donne comuni, madri reali, che hanno letto in questa sostituzione una negazione simbolica del loro stesso corpo.
La neolingua woke è spesso costruita con i migliori propositi, ma si rovescia su sé stessa come un soufflé troppo gonfio: invece di aggiungere significato, lo svuota; invece di allargare il discorso, lo irrigidisce. “Cieco” diventa “persona con visione non convenzionale”; “obeso” diventa “persona con corpi più grandi”; “criminale” diventa “persona che ha vissuto un’esperienza di giustizia penale”.
La realtà si eclissa in favore della perifrasi eticamente sterilizzata.
Dietro la semantica, si cela una guerra culturale. Chi usa il linguaggio tradizionale viene trattato come un eretico.
Anche se ha settant’anni e ha semplicemente detto “signorina”.
Nel 2023, un comico canadese è stato multato per aver preso in giro un ragazzo disabile durante uno show. Il caso è finito alla Corte Suprema. Il diritto alla comicità, alla provocazione, alla “cattiveria” di scena, è stato subordinato al diritto di non sentirsi offesi.
Se la satira non può più urtare, allora non è più satira.
È educazione civica.
Il comico Dave Chappelle è stato più volte preso di mira per aver ironizzato sull’identità di genere, pur avendo dedicato interi special alla lotta contro il razzismo.
Ricky Gervais ha ironizzato sul fatto che oggi non si può nemmeno più dire “donna” senza rischiare la gogna.
Sacha Baron Cohen ha smesso di impersonare Borat, perché — parole sue — “non puoi più far ridere su nulla senza essere linciato”.
La società che una volta celebrava Lenny Bruce o George Carlin oggi chiude i microfoni. E lo fa in nome del rispetto.
La cultura woke non si limita a censurare il presente: riscrive il passato. Romanzi, film, canzoni, persino statue vengono giudicati secondo il metro morale di oggi. Risultato: una gigantesca damnatio memoriae culturale che cancella la complessità per sostituirla con versioni “depurate”.
Nel 2023, le nuove edizioni dei libri per bambini di Roald Dahl hanno sostituito parole come “grasso” o “brutto” con espressioni più neutrali. Persino la celebre “Matilda” è stata rivista per eliminare riferimenti a personaggi storici “problematici”, come Rudyard Kipling.
È come correggere i dipinti di Goya perché “troppo cruenti”.
La Disney ha aggiunto avvisi di “contenuto sensibile” a classici come Dumbo o Peter Pan. Si parla addirittura di “trigger warning”, cioè di contenuti difficili da maneggiare, immagini o concetti che potrebbero turbare gli spettatori, per Via col vento, Shakespeare e Agatha Christie.
Ma una cultura che pretende di cancellare tutto ciò che non riflette la sensibilità attuale è una cultura che rinuncia al pensiero critico.
La storia non si riscrive: si studia.
E si contesta, se serve, con gli strumenti dell’analisi.
Non con la cesoia.
I campus universitari, un tempo fucine di idee controcorrente, sono oggi tra i luoghi più sorvegliati ideologicamente.
Nel 2022, la filosofa Kathleen Stock si è dimessa dall’Università del Sussex dopo essere stata accusata di ''transfobia'' per aver sostenuto che il sesso biologico esiste. Il suo campus è stato tappezzato di manifesti che chiedevano il suo allontanamento. Il tutto nel silenzio imbarazzato delle istituzioni accademiche.
Lo spazio sicuro per alcuni diventa gabbia per altri. E così, per proteggere le minoranze, sacrosanto intento, si finisce per zittire chi non si conforma al linguaggio approvato.
Nel 2024, in California, un’azienda ha chiesto ai dipendenti di non usare più espressioni come ''brainstorming'' (potrebbe offendere chi soffre di epilessia) o ''guru'' (appropriazione culturale). Un’università americana ha bandito il termine ''picnic'', in quanto ritenuto legato a linciaggi razziali. In Svezia, alcuni musei hanno smesso di chiamare le mummie in tal modo, optando per ''resti umani imbalsamati'' per rispetto verso i defunti.
Questi episodi, al confine tra Kafka e i Monty Python, non sono la norma, certo. Ma indicano una deriva reale: quella per cui l’eccesso di sensibilità diventa parodia di sé stesso. E il politicamente corretto smette di essere uno strumento di giustizia per trasformarsi in un regime linguistico.
Nel cuore del pensiero woke non c’è solo la giustizia sociale: c’è un nuovo sistema morale, simile in tutto e per tutto a una religione. Ci sono dogmi (l’identità come verità assoluta), c’è l’eresia (il dissenso), ci sono riti di espiazione (le scuse pubbliche), c’è l’inquisizione digitale (i social), ci sono i martiri e gli untori.
Chi sbaglia paga. Non importa se lo ha fatto trent’anni fa. Non conta il contesto. Basta un tweet, una battuta, un like fuori posto. L’inquisizione woke non perdona. Solo la confessione può salvare, ma non garantisce la redenzione.
Questa forma di moralismo secolarizzato ha preso il posto dell’etica. Non chiede coerenza, ma adesione. Non si misura sull’effetto delle azioni, ma sull’ortodossia del linguaggio.
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Monty Python |
Le prime vittime di questo clima sono proprio le minoranze che il woke vorrebbe proteggere. Perché se tutto diventa reato, se ogni frase è un campo minato, si crea ostilità.
Si alimenta la reazione.
Si fornisce materiale ai populisti.
Peggio: si impedisce il dialogo.
Molte persone, anche sinceramente progressiste, si stanno ritraendo da dibattiti su identità e diritti per paura di sbagliare. Al posto del confronto, l’autocensura. Al posto della crescita, il silenzio.
Nel frattempo, le destre ne approfittano. Usano gli eccessi woke per legittimare retoriche reazionarie.
E in molti, pur non condividendo il loro programma, iniziano ad annuire.
Criticare il politicamente corretto non significa essere fascisti, misogini o razzisti. Significa difendere il pensiero critico. Significa distinguere tra rispetto e censura, tra inclusione e imposizione. Significa ricordare che l’identità non è un’ideologia. E che la libertà non è negoziabile.
Serve un nuovo umanesimo: che riconosca le lotte per i diritti, ma rifiuti le rigidità dogmatiche. Che valorizzi il linguaggio, ma non lo feticizzi. Che protegga chi è vulnerabile, senza mettere la realtà sotto processo.
Quando una cultura si prende troppo sul serio, finisce per collassare su sé stessa. Il modo migliore per reagire agli eccessi del woke?
Ridere. Scrivere. Pensare.
Raccontare storie che mostrino la complessità umana, senza paura del fraintendimento.
Perché il mondo non è un’aula universitaria.
È molto più sporco, molto più bello, molto più tragico. E soprattutto: è vivo.
E finché ci sarà qualcuno disposto a scrivere che ''il re è nudo'', allora non tutto è perduto.
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