mercoledì 19 novembre 2025

Il silenzio degli autocrati: perché l’Ucraina non commuove più


Arriva un momento in cui l’indignazione si spegne non perché manchi il dolore, ma perché mancano i volti in cui riconoscerlo. 
La guerra in Ucraina è diventata quel momento: un’eco lontana, ripetuta fino a perdere senso, prigioniera tra due autocrati che si specchiano l’uno nell’altro e ci chiedono di scegliere chi mentirà meglio. In questo deserto di verità, anche la compassione si consuma, e il silenzio diventa la nostra unica forma di dissenso.
C’è un silenzio strano, quasi imbarazzato, che aleggia attorno alla guerra in Ucraina. È un silenzio che non è indifferenza, ma qualcosa di più complesso: una forma di disincanto, di sospensione morale, di anestesia collettiva. 
Mentre la tragedia di Gaza scuote le piazze, incendia i social, spacca i partiti e i governi, quella dell’Ucraina sembra scivolare ai margini dell’attenzione pubblica, come se fosse un rumore di fondo, un conflitto divenuto cronico, inglobato nella routine dell’informazione. 
Eppure, all’inizio, non era così: nel 2022, quando la Russia invase il territorio ucraino, l’Occidente si riscoprì improvvisamente unito nel segno dell’indignazione morale. Sventolavano bandiere giallo-blu dai balconi, le star facevano appelli, i talk show moltiplicavano esperti e strateghi, la narrativa era chiara: un popolo libero stava resistendo all’aggressione di un dittatore. Poi, lentamente, quella narrazione si è sfilacciata, ha perso forza, si è spenta nella nebbia delle contraddizioni. Oggi, a distanza di oltre due anni, la guerra in Ucraina non suscita più la stessa rabbia, né la stessa partecipazione emotiva. 
Perché? 
La risposta, se la si guarda senza filtri ideologici, è scomoda: perché non si riesce più a credere fino in fondo al racconto morale che l’ha accompagnata, perché i suoi protagonisti, da Putin a Zelensky, appaiono sempre più come due facce di una stessa logica di potere, due autocrati che, in forme diverse, manipolano la verità, censurano l’opposizione, riducono la complessità del mondo a un dualismo funzionale ai propri interessi. 


Ed è difficile, per chi osserva, scegliere tra due sovranità che parlano entrambe il linguaggio del comando, della propaganda e della gloria nazionale. Gaza, invece, è diversa: lì c’è un popolo chiuso in una gabbia, bombardato da un esercito che agisce nel nome della sicurezza e della vendetta. 
Lì l’asimmetria è lampante, quasi brutale. 
La morale si offre allo sguardo in modo diretto: da un lato i civili, dall’altro i caccia. 
In Ucraina, invece, il conflitto si è sporcato di grigi. E i grigi, si sa, non generano indignazione: generano solo stanchezza. La differenza tra Gaza e l’Ucraina non sta dunque solo nella geografia o nella religione, ma nella struttura narrativa che il mondo ha costruito attorno a ciascuna. Gaza è teatro di una tragedia biblica, arcaica, che risveglia le coscienze.
L’Ucraina è un campo di battaglia moderno, tecnologico, iper-mediatizzato, dove i ruoli si confondono e i valori si relativizzano. Nel primo caso, le immagini di bambini intrappolati sotto le macerie colpiscono il cuore; nel secondo, le conferenze stampa di Zelensky, i summit NATO, le mappe con i fronti di guerra, parlano più alla ragione che all’emozione, e alla lunga la ragione si stanca. 
Ma dietro questa differenza percettiva si cela qualcosa di più profondo: la sensazione che la guerra in Ucraina non sia più, o non sia mai stata, una lotta tra libertà e tirannide, bensì una guerra per procura tra imperi, una disputa per il controllo geopolitico dell’Europa orientale nella quale i civili sono comparse e la verità è merce di scambio. 
Il problema, allora, è che l’indignazione ha bisogno di eroi e di vittime, non di complici. E quando il volto della vittima,  quello di Zelensky, comincia ad assumere tratti sempre più autoritari, quando il difensore della democrazia chiude media, perseguita oppositori, censura i sindacati e militarizza il Paese, l’immagine crolla. 
Non si può difendere la libertà imitando le forme del potere che si combatte. 
Zelensky, in fondo, è un prodotto del suo tempo: ex attore televisivo, trasformatosi in comandante supremo di una nazione in guerra, incarnazione perfetta della fusione contemporanea tra spettacolo e politica. Il suo volto in maglietta verde militare è diventato un brand, la sua parola un mantra, la sua causa una liturgia. 
Ma dietro la retorica della resistenza si è aperto un vuoto morale: chi è davvero Zelensky? 


L’uomo del popolo o l’icona costruita per mantenere il consenso interno e gli aiuti occidentali? L’autocrate patriottico o il burattino delle élite atlantiche? Le domande, anche solo a porle, erano un tempo considerate sospette, quasi filorusse. Oggi, invece, si fanno strada con un misto di disincanto e sfiducia. Perché anche Putin, con il suo culto della forza e della storia imperiale, con la sua ossessione per il controllo e la manipolazione, non rappresenta più il male assoluto, ma il riflesso deformato di un mondo in cui tutti i leader giocano la stessa partita di potere. 
È forse questo il motivo per cui l’opinione pubblica non riesce più a indignarsi come prima: perché non vede più una differenza netta tra aggressore e aggredito, tra libertà e autoritarismo, tra verità e propaganda. 
È una guerra tra specchi, e ogni specchio riflette il volto dell’altro. 
L’Occidente, poi, ha giocato un ruolo decisivo in questa confusione morale. Ha trasformato la guerra in Ucraina in un laboratorio di consenso: prima il racconto eroico del popolo che resiste, poi la retorica della difesa dei valori europei, infine la promessa che sostenere Kiev significhi difendere se stessi. 
Ma a lungo andare, l’ipocrisia si consuma. Perché come si può condannare l’invasione di un Paese e allo stesso tempo giustificare l’occupazione di un altro? Come si può invocare la libertà dei popoli e chiudere gli occhi davanti ai bombardamenti su Gaza? Il doppio standard occidentale, che misura il dolore con la bilancia degli interessi, ha distrutto ogni residuo di fiducia nel linguaggio dei diritti umani. Così, di fronte alle immagini di Gaza, la gente si è ribellata, ha percepito l’ingiustizia nella sua forma più pura; di fronte a quelle di Kiev, invece, ha smesso di credere. 

L’indignazione, quando percepisce la manipolazione, si trasforma in apatia. 
E l’apatia è la forma più raffinata di sconfitta morale. È significativo notare che persino nei media, un tempo allineati sulla narrativa ucraina, oggi prevale un tono di rassegnazione. Le cronache non parlano più di libertà, ma di controffensive fallite, di stalli militari, di territori guadagnati e persi. La guerra è diventata un algoritmo: numeri, droni, missili, bilanci. 
Non c’è spazio per la pietà, né per la verità. 
Ogni parte rivendica la propria versione dei fatti, ogni fonte è sospetta, ogni informazione è strumento di guerra. In questo contesto, il cittadino occidentale medio non sa più a chi credere, e quando non si sa a chi credere, si smette di sentire. 
Gaza, al contrario, non ha bisogno di essere spiegata: si vede, si percepisce, si sente nella carne. È una guerra che parla il linguaggio universale del dolore, non quello dei think tank
L’Ucraina, invece, è diventata un talk show geopolitico, un tema di dibattito per esperti, non una ferita collettiva. Eppure, se si guarda in profondità, le due tragedie sono figlie della stessa epoca: quella in cui la guerra non è più un evento, ma una condizione permanente. Il mondo è entrato in una fase di guerra diffusa, multipolare, in cui le frontiere non sono solo geografiche ma narrative. 
Gaza e Kiev sono due facce dello stesso collasso morale dell’umanità: la prima è la guerra della disperazione, la seconda la guerra della simulazione. 
In entrambe, le vittime sono invisibili. 
Ma la differenza è che a Gaza il carnefice è identificabile, in Ucraina no. 


Lì il potere si moltiplica, si frammenta, si traveste da libertà. E quando la libertà assume le forme del potere, non resta più nessuno da difendere. Forse, il vero dramma dell’Ucraina è proprio questo: non essere più credibile come simbolo morale. Zelensky, da eroe mediatico, è diventato una figura ambigua: l’ex attore che ha trasformato la tragedia in fiction, che parla di democrazia mentre accentra il potere, che chiede sacrifici mentre vieta le elezioni, che denuncia la propaganda russa mentre diffonde la propria. Putin, dal canto suo, rappresenta l’archetipo dell’autocrate: cinico, ideologico, ossessionato dal controllo. Ma ciò che inquieta è che entrambi si somigliano più di quanto si voglia ammettere. Entrambi hanno bisogno della guerra per sopravvivere politicamente, entrambi alimentano il mito del nemico esterno, entrambi considerano la verità un’arma tattica. Sono due versioni dello stesso paradigma di potere: quello dell’uomo solo al comando, che parla a un popolo spaventato e chiede fede, non pensiero. È in questo spazio che si dissolve lo sdegno. 
Perché quando la libertà diventa slogan e la democrazia diventa spettacolo, non resta più nessuna parte giusta da scegliere. La gente, inconsciamente, lo percepisce: avverte che il conflitto ucraino è una tragedia senza innocenti. E così smette di reagire. A Gaza, invece, la brutalità dell’evidenza spezza ogni alibi: non servono analisi geopolitiche per capire chi soffre e chi opprime. L’indignazione, lì, non ha bisogno di ideologia. In Ucraina sì, e quando l’ideologia collassa, resta solo la fatica. 
Ma c’è un altro elemento: il fattore del tempo. 
Gaza è un orrore concentrato, che esplode e brucia nell’immediatezza; l’Ucraina è un logoramento, un’agonia lenta. Le guerre lunghe non mantengono alta l’emozione, si sedimentano come polvere. Diventano abitudine, e l’abitudine è la tomba dell’empatia. L’Occidente, abituato a consumare tutto in tempo reale, non sa più sostenere il dolore nel lungo periodo: lo abbandona come un prodotto scaduto. Così, dopo le prime ondate di commozione, ha delegato la questione ucraina ai governi, ai militari, ai commentatori. 
Gaza, invece, ha riportato la guerra nelle strade, nei cortei, nei campus. Ha riattivato una coscienza collettiva che l’Ucraina non è riuscita a mantenere. Forse perché Israele è un alleato scomodo, e criticare Israele significa criticare anche gli Stati Uniti, quindi mettere in discussione l’intero ordine mondiale. In questo senso, paradossalmente, l’indignazione verso Gaza è anche un atto politico contro l’ipocrisia del potere. Mentre l’indifferenza verso Kiev è un segno di resa: la resa a un sistema che ha reso il dolore una merce intercambiabile. Eppure, anche nell’indifferenza, si nasconde una forma di lucidità. Perché molti, ormai, hanno capito che la guerra in Ucraina non finirà con una vittoria, ma con una trattativa imposta; che i morti saranno serviti solo a ridisegnare sfere d’influenza; che la democrazia non uscirà rafforzata, ma più fragile. 
E forse è proprio questa consapevolezza a togliere pathos al conflitto: la certezza che non c’è nessun ideale in gioco, solo interessi. Gaza, invece, rappresenta ancora una questione di principio: la vita di un popolo negata in diretta mondiale. È il ritorno del male assoluto, quello che non può essere relativizzato. Ma nel fondo di entrambe le guerre c’è lo stesso fallimento: l’incapacità dell’umanità di riconoscersi come tale. 
Putin e Zelensky, Netanyahu e Hamas, sono tutti prigionieri della stessa logica di dominio. 
La differenza sta nel modo in cui la mostrano: chi apertamente, chi sotto la maschera della libertà. E forse è proprio la maschera, più che la tirannia esplicita, a suscitare fastidio. Perché la menzogna travestita da morale offende più della brutalità dichiarata. L’Ucraina, in questo senso, è diventata il simbolo dell’ipocrisia globale: un Paese che si proclama libero ma vive sotto legge marziale, che invoca la pace ma si arma fino ai denti, che denuncia la disinformazione ma espelle chi la contraddice. Zelensky, per certi versi, è l’icona perfetta del potere postmoderno: carismatico, telegenico, moralmente ambiguo. 
Putin, invece, è l’icona del potere arcaico: spietato, ideologico, autoritario. Ma il risultato è lo stesso: due sistemi chiusi, verticali, che si nutrono di propaganda e paura. È difficile, davanti a questa simmetria, provare indignazione selettiva. La guerra in Ucraina, ormai, non rappresenta più una battaglia tra bene e male, ma tra due versioni del medesimo male: quello dell’uomo che crede di poter governare la storia. Gaza, al contrario, è ancora la lotta di un popolo contro la storia stessa. Ed è per questo che commuove. 


Ma l’assuefazione all’Ucraina non è solo un problema di percezione, è anche un problema di colpa: l’Occidente ha investito troppo in quella guerra per potersi permettere di dubitarne. Ogni perplessità viene letta come tradimento, ogni dubbio come complicità con il nemico. Così, molti scelgono il silenzio. Ma il silenzio, quando è diffuso, diventa consenso passivo. E la guerra, intanto, continua, alimentata da un flusso costante di armi, denaro, menzogne. 
È come se la storia si fosse impantanata in un loop: ogni giorno si ripete, ogni giorno uguale al precedente. 
A Gaza, invece, la violenza esplode in modo ciclico, ma sempre con nuove immagini, nuovi volti, nuove ferite. 
Lì la tragedia si rinnova, qui si consuma. 
In fondo, ciò che distingue i due conflitti è il rapporto con la verità: a Gaza la verità è troppo evidente per essere negata, in Ucraina è troppo manipolata per essere trovata. E senza verità non c’è sdegno, solo confusione. In questo senso, la figura di Zelensky è centrale: perché rappresenta il punto di crisi della credibilità occidentale. È l’uomo che doveva incarnare la rinascita democratica dell’Est Europa, e che invece ha finito per mostrare quanto fragile e illusorio sia quel modello. Il suo potere mediatico è il riflesso di un mondo in cui la politica è diventata storytelling. E quando la guerra si riduce a narrazione, l’indignazione perde sostanza: si trasforma in spettacolo. Così, mentre Gaza riaccende il senso della realtà, l’Ucraina lo dissolve. È un paradosso: la guerra più tecnologica della storia è anche la più opaca. Non vediamo più il sangue, ma solo i droni; non ascoltiamo più le voci, ma solo i comunicati. La guerra è diventata algoritmo, e l’algoritmo non suscita compassione. 
Gaza, invece, ci riporta brutalmente nel mondo del corpo, del pianto, della polvere. 
È questo, in ultima analisi, il motivo per cui la guerra in Ucraina non provoca lo stesso sdegno: perché ha perso il contatto con la realtà umana. È diventata una guerra tra simboli, tra sistemi, tra autocrati. E quando a combattersi sono due poteri speculari, nessuno può dirsi innocente. La storia non è più un campo di valori, ma un’arena di ambizioni. Zelensky e Putin, in fondo, si assomigliano perché condividono la stessa fede: quella nella forza del leader, nella retorica della patria, nella sacralità del sacrificio. 
È la religione del potere, e l’Occidente, che pure finge di respingerla, la pratica ogni giorno. Forse, allora, il nostro sdegno non è morto, ma paralizzato dal sospetto che nessuno, in questa storia, meriti davvero di essere salvato. E questo sospetto, più di qualsiasi propaganda, è ciò che rende il mondo muto.

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