giovedì 5 settembre 2024

Massimo, scusa il ritardo.


Strano destino quello di Massimo Troisi.
Anche a distanza di 30 anni dalla sua morte, pur essendo amatissimo, e pur dopo le innumerevoli visioni dei suoi films, viene ricordato più come attore che come autore.
La forza straripante della sua comicità, del suo corpo comico, del suo essere noto soprattutto in quanto attore, rendeva infatti difficile pensarlo, immaginarlo, considerarlo come un "vero" regista cinematografico.
Abbagliati un po’ tutti dalla sua straordinaria verve comica, nessuno era riuscito a vedere che grande realizzatore di cinema era: sceneggiatore, innanzitutto; Troisi infatti nasceva come scrittore di teatro, non era quindi solo la “macchietta” comica del trio della Smorfia, lo smilzo in calzamaglia nera dalla battuta esilarante. 
Autore dei testi del gruppo e precedentemente del mega-gruppo del Centro Teatro Spazio, Troisi ha dunque sempre avuto una passione per la scrittura, per il testo da interpretare, per le battute, i personaggi, le storie etc. 
Poi regista, infine produttore, negli ultimi anni della sua vita, anche di film non "suoi", oltre che, naturalmente, attore.
In questa sua poliedricità, che non ha assolutamente nulla di megalomane (anzi!), Troisi ha rappresentato nel corso degli anni ’80 un caso davvero unico: amato dal pubblico, che ha decretato per i suoi film sempre dei grossi successi, snobbato, quando non stroncato dalla critica, sempre pronta a leggerne le insufficienze registiche, dalle povertà della messa in scena, alle presunte fissità della macchina da presa, passando per una presunta incapacità di legare le storie e lavorare a fondo con i personaggi. 
Il tutto poi alla ricerca "forzata" di ritrovare la freschezza e la comicità di quell’esordio, tra i più clamorosi dell’intero cinema italiano, che era stato Ricomincio da tre, film che incassò, nella stagione 1980/1981,  ben 12.700.000.000 !
Peccato che anche quel film all’inizio non piacque alla critica, e fu solo dopo lo straordinario successo di pubblico che venne notato e, spesso ipocritamente e comunque tardivamente, apprezzato.
Massimo, forte del suo successo, riuscì anche a fregarsene della critica, magari facendo anche delle battute ironiche sul "noto critico napoletano", cioè il critico de Il Mattino di Napoli, che puntualmente stroncava i suoi film. 
Ma la critica italiana, continuando a vedere il suo cinema con i paraocchi della "Cultura" o della "Cinefilia", non riusciva a capire, persa dietro le "carinerie" del cosiddetto "Giovane Cinema Italiano", che avevamo in casa un gran cineasta. 
E questo almeno per due motivi. 
Intanto perché Troisi non era un cinefilo, “Il cinema non è la cosa più importante della mia vita” disse in diverse occasioni, e questo lo rendeva apparentemente “innocuo” e "lontano" a tutti i "malati" di cinema, quelli che popolano i Festival, scrivono su giornali, riviste, insomma l’ambiente degli appassionati.
Impossibile divertirsi e appassionarsi per le sue visioni: Troisi non è Lynch, non è Truffaut, non è De Palma, né Fellini, Antonioni, Bertolucci, etc. Il suo non è un cinema di sguardi; non è l’occhio ad esserne sconvolto, cioè la visione, bensì lo stomaco e, poco più su, il cuore, il muscolo dei sentimenti.
In più Troisi è comico, e il riso, si sa, non fa vincere mai i premi…
A fatica si è accettato Lubitsch tra i maestri, nessuno ha mai detto che John Landis è stato tra i più grandi registi viventi, e Woody Allen è divenuto "un genio" solo quando ha smesso i film "demenziali" alla Prendi i soldi e scappa, Il Dormiglione o Bananas, da quando cioè, come disse lo stesso Troisi, che pure lo ammirava, “ha smesso di far ridere”.
Insomma non era un cinefilo ed era un comico: come poteva pretendere di essere un cineasta? 


E infatti Troisi non lo pretendeva. Siamo di fronte qui al caso di maggiore mancanza di presunzione della storia del cinema, e al cineasta con il maggior senso (auto)critico che si sia conosciuto, che sosteneva che “non solo non si finisce mai di imparare, ma io devo ancora cominciare…”.
Invece per noi pubblico, che non siamo cinefili e adoriamo il comico, Massimo Troisi ha rappresentato in Italia uno dei pochi che hanno fatto cinema perché avevano qualcosa da dire e da raccontare, che scrivevano storie con il piacere e la sofferenza di farlo, che in ogni film riuscivano a dare qualcosa di "nuovo", anche se poi lui era così modesto, o forse troppo cosciente dei propri limiti, per cui asseriva che “se ti perdi un film di Troisi non succede niente, te lo puoi vedere tranquillamente tra due anni, oppure te lo puoi perdere e ne vedi un altro…”.
Ma questa storia della sua "scarsa" regia è davvero esagerata, tutti contro Troisi e la sua macchina da presa sempre ferma: ma davvero è solo lì la buona regia? 
E il senso dell’inquadratura, cioè quello che si vede nel ‘quadro’?
E la cura dei dettagli? 
E il décor cioè le scene, gli interni dei suoi film, non faraonici ma sempre "precisi"? 
E i "raccordi", la scelta dei piani, le entrate, le uscite, la direzione degli attori, etc…?
Il successo di Troisi non nasce a caso agli inizi degli anni ’80. Il suo è stato un lungo tirocinio, effettuato lavorando per il teatro, attraverso i cambiamenti sociali degli anni Sessanta-Settanta.
Approdando al cinema, Troisi si appropria di quello che costituisce il meglio della tradizione cinematografica italiana: la capacità, cioè, di parlare di cose "terribilmente serie" attraverso la comicità. Era questa la caratteristica “geniale” della migliore “commedia all’italiana”, che seppe rappresentare meglio di ogni altro linguaggio ‘culturale’ o ‘spettacolare’ le trasformazioni dell’Italia, in particolare nell’epoca del boom economico tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60.
Troisi ha fatto però un’operazione di "ripulitura" e ammodernamento della commedia così com’era diventata. 
Intanto eliminando le volgarità della "commediaccia" anni ’70; poi ricollocando il tutto nella società italiana post ’77, quella delle post-ideologie, post-femminismo, con nuovi bisogni, un’ironia/autoironia diffusa, l’affermarsi della soggettività individuale, i nuovi consumi. 
Cioè, come disse Troisi, citando il cantautore Giorgio Gaber, “usando la comicità per dire tutte le cose”, il comico per parlare dei sentimenti, delle cose della vita.
In questo, il ragazzo di San Giorgio a Cremano, ha operato delle trasformazioni quasi epocali modificando il modo di far ridere così come il modo di aspettarsi la comicità.  
Perché si ride con Troisi? 
Le vecchie motivazioni crollano: egli usa drammi, rapporti, emozioni, sentimenti umani. In ciò manifestando le angosce e le frustrazioni di una generazione post-tutto. Troisi, infatti, viene proprio dopo il ’77, che stravolse non solo le ideologie ma soprattutto il privato di migliaia di giovani, de-ideologizzando tutto, tutto mettendo in discussione.
E in Ricomincio da tre, diretto e interpretato nel 1981 e che gli valse un David di Donatello e un Orso d’argento come miglior attore e regista esordiente, vediamo un "paradosso culturale" per il provincialismo italico che in altri tempi avrebbe funzionato da parodia: è la donna che lo "rimorchia", lei che lavora, scrive, lo porta a letto, l’ospita in casa, forse lo mantiene.
I ruoli sono rovesciati del tutto, eppure non è su questo che gioca la comicità. 
Risiede piuttosto nella capacità/incapacità del "nuovo giovane" di adattarsi a nuove convenzioni, nuovi ruoli sociali. Non è paradossale che sia la donna a "condurre il gioco", bensì che lui non sappia del tutto adeguarsi, essere al passo con le trasformazioni socio-culturali. 
Non sono i cambiamenti a essere messi alla berlina, piuttosto la difficoltà/incapacità di accettarli.
Gaetano, il protagonista di Ricomincio da tre rompe gli stereotipi, propone il "nuovo" quando dice “parto, ma non per fare l’emigrante, ma per conoscere, per viaggiare”, lo accetta anche per i vantaggi iniziali del rapporto con Marta, ma si "blocca" sullo scoglio della gelosia. 

Certo è che nel 1981 quel film rappresentò una svolta, un punto di passaggio. Come se improvvisamente, grazie al questo grande talento comico, gli anni ’70 fossero definitivamente finiti. 
Ma non quella versione che oggi ci raccontano, plumbea e violenta, ma gli anni ’70 delle grandi speranze di cambiamento e anche della volontà di modificare il nostro modo di vivere “qui ed ora”, non il giorno della liberazione… In quegli anni chi era giovane sperimentò sul proprio corpo e sul proprio intelletto la rimessa in discussione di categorie morali, emozionali, sessuali, che erano lì ferme da secoli, e che venivano stravolte da profonde riflessioni intellettuali così come da comportamenti alternativi.
Non era solo il concetto di “potere” politico ad essere messo in discussione, ma anche quello delle relazioni tra le persone, tra i sessi. Il femminismo pose l’uomo di fronte allo specchio, nudo e senza più ipocrisie a sorreggerne il ruolo sociale.
La politica era la vita quotidiana, lo schermo oscuro attraverso il quale i corpi entravano in conflitto e in contraddizione con gli altri.
Massimo Troisi metabolizzò tutto ciò, arrivando ad esprimere una comicità mai vista prima, fatta di battute fulminanti e dialoghi da “presa diretta”, in totale sintonia con il linguaggio giovanile di quegli anni, talmente dentro il modo di muoversi, parlare, camminare, respirare e amare di allora da diventare immediatamente comprensibile in ogni parte d’Italia, nonostante la scelta di non rinunciare a quel dialetto napoletano del quale sembrava non sapersi, o volere, liberare.
E Ricomincio da tre lo capirono davvero tutti.
Da Milano alla Sicilia milioni di persone lo andarono a vedere e a sbiascicarsi dalle risate, per una volta non vergognandosi di farlo, come purtroppo spesso accadeva in quegli anni, perché il film era una commedia sentimentale, un road movie (Napoli/Firenze…), ma soprattutto l’occasione per mostrare la rimessa in discussione totale del maschio italiano, che Massimo riproduceva con i suoi tic, le sue difficoltà ad accettare non tanto intellettualmente quanto fisicamente i cambiamenti di ruolo che le esuberanze del femminismo di allora richiedeva. 


E Ricomincio da tre è tutto un gioco folle, a scatti, per quadri sconnessi, dove tutto sembra essere rimesso in discussione: dall’idea di emigrazione, dal concetto di giovane, dai rapporti familiari, dal mito del viaggio, a quello con la religione fino, inevitabilmente, a quello di coppia.  Il Gaetano, protagonista di Ricomincio da tre, porta scritto sul suo corpo il cambiamento di quegli anni, e segna come un punto di non ritorno culturale, colto in pieno dal Paese ma non, purtroppo, dal cinema italiano. 
Che infatti in quegli anni ’80 sprofondò in una crisi da cui non si è più ripreso, confondendo questo straordinario poeta dei sentimenti per un comico come gli altri. Massimo Troisi era, appunto, il comico dei sentimenti, perché sapeva cogliere quelle sfumature dolceamare delle nostre relazioni, dei nostri amori scombinati e confusi, di quell’esigenza contemporanea di vivere assieme all’altro ma anche di rifuggirne.
Ma Ricomincio da tre, capolavoro incompreso del nostro cinema, a dispetto dei premi vinti, per l'intellighenzia allora imperante, restava macchiato da una grave colpa: faceva ridere, anzi, faceva morire dal ridere. 
E proprio per questa grave "colpa", nessuno dei critici e intellettuali di allora ne colse lo straordinario e rivoluzionario intento, quasi analogo, ma in chiave comica, a quello del film "L'Ultima Donna", di Marco Ferreri, altro genio di quegli anni.  
No, Massimo Troisi era solo un comico, non un’incredibile cartina al tornasole dello stato dell’uomo (e delle donne, grazie all’intelligenza artistica di Anna Pavignano) dopo la rivoluzione femminista.
Quando Troisi trionfa con Ricomincio da tre, gli italiani sono già cambiati molto, ma il cinema di quegli anni non se n’è ancora accorto. 
Il successo arriva perché il nuovo spettatore cinematografico, che è molto più giovane del passato, vede che finalmente c’è qualcuno che racconta storie in cui potersi riconoscere, con le difficoltà a comunicare, a relazionarsi agli altri, ad affrontare i problemi di "affetti" giornalieri. 
E lo fa non seriosamente, ma facendoci ridere sopra, ironizzando ed esorcizzando paure e ritrosie al cambiamento. In questo, Troisi viene a caratterizzarsi come una sorta di "Truffaut italiano", piccolo ‘geniale’ poeta della quotidianità.
E questo lo si capirà meglio proprio quando al brillante esordio farà seguire un film che fece tutto meno che cercare di sfruttare quel filone "Nuova Napoli’ nato dopo Ricomincio da tre e morto subito dopo, anche e soprattutto per il mancato traino del personaggio Troisi.
Troisi "muore" e "rinasce" con "Scusate il ritardo", del 1983, film incredibilmente intimista e cupo  in cui comincia la distruzione sistematica del personaggio che lo aveva portato al successo. 
Per cui ecco il Vincenzo logorroico, assillante, egocentrico, insensibile, disattento, in un film talmente malinconico che se non fosse Troisi potrebbe benissimo far piangere. La malattia d’amore, l’afasia dei sentimenti, l’incomprensione, la mancanza di passione, di tenerezza, una Napoli tutta "interiore", quasi azzerata nei paesaggi, cupa, piovosa e nuvolosa, cioè tutto il contrario di quello che dovrebbe essere.


Insomma, un campionario di pura emozionalità umana, un concentrato di personaggi e situazioni, un film secco e crudele che andava a scontrarsi apertamente con le aspettative e che invece costituiva il logico proseguimento dell'evoluzione del personaggio/uomo Troisi.
Massimo lascia la Smorfia all’apice del successo televisivo, con Scusate il ritardo opera la sistematica distruzione del suo personaggio di successo di Ricomincio da tre e, quando nel 1984, in coppia con Roberto Benigni in Non ci resta che piangere, trionferà nuovamente ai botteghini, farà in modo che anche quella sia una nuova, e da non ripetere, esperienza. 
Troisi era talmente ‘ricco’ di idee, e contemporaneamente talmente "pigro" e desideroso di non "sprecare" il proprio talento, che era continuamente affascinato dal cambiamento, dal rischiare, dal giocare con cose nuove. 
Non poteva, e non sapeva, svendersi. 
Poteva solo vendere ciò che era, cioè se stesso e la propria grande creatività.
Perciò seguiva sempre l’istinto e il "piacere" e soprattutto stare con persone con le quali era in sintonia. Quindi, dopo l’intimismo di Scusate il ritardo, si getta nel puro divertissement di Non ci resta che piangere, film stupendamente sconclusionato, con una sceneggiatura folle che fa acqua da tutte le parti, ma ugualmente amato dal pubblico che seppe riconoscerne l’onestà e la genuinità del suo divertirsi lavorando, in quella specie di complicità perversa che lo legava al più surreale e incontenibile Roberto Benigni.
Deviare le aspettative del pubblico, inventarsi titoli ogni volta più assurdi e indipendenti dal "testo", prendere delle figure, delle ossessioni, delle immagini/tema e capovolgerne il segno: questo era il gioco di Troisi. 
In Le vie del Signore sono finite, del 1987, la malattia diviene strumento, forma di comunicazione estrema, non solo sofferenza; la bugia non è più la "menzogna", l’essere falsi e repellenti: è un qualcosa  di umano, una piccola debolezza che spesso ci aiuta a vivere meglio, altre volte no, ma è comunque parte della piccola quotidianità del nostro mondo. 
L’amicizia come caposaldo di tutto il suo cinema.  
Cinema di rapporti, ma dove amicizia e amore la fanno da padroni.  
Ed è in fondo per stima ed amicizia che in due anni interpreta tre film con Ettore Scola,  prima, nel 1989, Splendor e Che ora è?, entrambi accanto a Marcello Mastroianni, mentre l’anno successivo interpretò un malinconico Pulcinella in Il viaggio di Capitan Fracassa


In ogni film c’è una storia d’amicizia e una storia d’amore, fino a Pensavo fosse amore e invece era un calesse, forse l’opera di maggiore consapevolezza del suo cinema.
Ma l’amicizia sembra sempre qualcosa di forte, passionale, mentre l’amore è spesso "più freddo della morte"
Come si possa far ridere con un amico disperato che vuole uccidersi perché la donna l’ha lasciato, con un personaggio come il Vincenzo di Scusate il ritardo, che mentre Anna gli parla d’amore si distrae per ascoltare le partite; con uno come il Camillo di Le vie del Signore sono finite, che mette in scena una bugia dopo l’altra allo scopo di riconquistare l’amata e di farsi accettare/aiutare dagli altri, questo forse lo sapeva solo Troisi.
Carpire il segreto della sua comicità non è facile, però c’è da dire che nessuno come Troisi abbia saputo sondare gli umori e le ansietà degli anni ’80. Una sensibilità acuta e tutta istintiva, ma non improvvisata, che sapeva anche, comunque, improvvisare.
Troisi sapeva prendere dei personaggi, inserirli in contesti "leggeri" alla Truffaut ma con carichi pesanti di relazioni interpersonali alla Fassbinder. 
Prendeva i sentimenti dei personaggi e li metteva  a nudo, li spogliava di ogni corteccia, e sapeva divertire lavorando sulle pulsioni, sulle emozioni dello spettatore che, tra il divertito e lo sconvolto, si trovava ad essere colpito da tutte le parti.
Ed eccolo dopo diverse operazioni al cuore, cimentarsi, malato, nella sua ultima opera: Il postino (1994), dal romanzo di Antonio Skármeta, commovente mélo ambientato negli anni ’50, fu fortemente voluto da Troisi che ne fu l’interprete, al fianco di Philippe Noiret e dell’esordiente Maria Grazia Cucinotta, e di cui firmò solo la sceneggiatura. 
In realtà, pur se firmato da Michael Radford, il film fu, a tutti gli effetti, nella sua malinconica finezza, una sua opera e una sorta di piccolo testamento cinematografico. 
Troisi aveva espresso più volte la propria insoddisfazione per l’incapacità di sapere utilizzare, anche politicamente, il proprio ruolo di personaggio, “sento che potrei fare di più, prendere posizione, indignarmi di più, ma pubblicamente”.  
E in questo suo ultimo ruolo, interpreta un umile postino che cerca di utilizzare l’amicizia conquistata con il grande poeta Neruda (ancora l’amicizia…) per imparare a conquistare con le parole giuste la donna amata, con la celeberrima frase “la poesia non è di chi la scrive ma di chi la usa”, meravigliosa acquisizione della consapevolezza che è il pubblico il vero “proprietario” delle storie, del cinema.  E il film termina proprio con una manifestazione, quasi un piccolo atto di ribellione, come a voler raccontare un “impegno” di un tempo che non c’era più…


Genio incompreso del cinema  italiano, Troisi ha saputo raccogliere e contemporaneamente influenzare aree ben più vaste della sua generazione e collocazione geografica.
Ripensandolo oggi, 38 anni dopo, possiamo dire che Ricomincio da tre segnò un punto di svolta possibile, ma non compreso, una meravigliosa isola solitaria nella storia del cinema italiano, anche se ovviamente tutti oggi lo inseriscono nell’ondata dei “nuovi comici” di allora, meravigliosamente messa in ridicolo proprio da Massimo in quell’ospizio per i “nuovi comici” con Nichetti, Arbore, Verdone e Benigni  in Morto Troisi Viva Troisi!
Il cinema italiano poteva scegliere di abbandonare per sempre la dicotomia cinema d’autore/cinema comico, cinema impegnato/cinema popolare. 
Massimo Troisi aveva il genio e il talento per far saltare all’aria tutte queste categorie, regalandoci film complessi e semplici, divertentissimi e romantici, malinconici e appassionati, sempre comunque magnificamente vivi e amati dal pubblico. 
Peccato non averne saputo coglierne le grandi possibilità che quell’imprevedibile successo apriva, forse oggi avremmo un altro cinema italiano…

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