lunedì 16 settembre 2024

Stanley Kubrick - L' epopea di un grande visionario parte 5

 

In Barry Lyndon Kubrick mette in scena il lungo racconto della vita di questo avventuriero uscito dalla penna di Wlliam Thackeray, The Luck of Barry Lyndon, 1844, che cerca in tutti i modi di entrare a far parte dell’aristocrazia inglese.
Un uomo, Barry Lyndon, interpretato da Ryan O’Neal, senza apparente morale, nato povero e con una smania di ricchezza. 
Irridente e impenitente nei suoi atteggiamenti lascivi e iracondi. Un antieroe che lo scrittore tratteggia con un moralismo molto amaro. Ma non è quello l’interesse del regista. Kubrick prende in mano il romanzo di Thackeray e vi opera un enorme lavoro di sottrazione.
Il ritmo del racconto diventa lento e inesorabile, una voce narrante sostituisce la soggettiva del romanzo. La maggior parte degli avvenimenti avvengono fuori dallo schermo e lo spettatore ne è informato dalla voce narrante. 
L’ascesa e la caduta dell’antieroe settecentesco nel flusso di una Storia che ne sommerge e dimentica l’esistenza. Come nella scena finale, senza dialoghi, dove la malinconica Lady Lyndon, Marisa Berenson, firma delle carte e sul pagamento destinato a Barry per il suo esilio si "cristallizza" la Storia con una data che si riesce a leggere, 1789.
E’ la rivoluzione che attende dietro l’angolo e di cui ancora una volta l’avventuriero sarà, forse protagonista. La musica e la luce dominano, non solo questo finale, ma tutto il racconto cinematografico. Creando quella meraviglia ancora oggi inarrivabile dopo quasi 50 anni dalla prima.
La bellezza di Barry Lyndon, la luce pittorica e naturale di molte scene, non è al servizio della storia. Per questo spesso è stato criticato o additato con superficialità. 
Ma è uno dei livelli più alti toccati dallo sguardo del regista di Full Metal Jacket e Eyes Wide Shut. Kubrick, ancora una volta e forse più decisamente, sembra indicarci la direzione: illustrandoci come lo sguardo vede il mondo e la Storia.
Barry Lyndon vinse 4 premi Oscar: miglior scenografia, costumi, direzione musicale e miglior composizione musicale originale, composta dai Chieftains. 
Girato in pellicola, Eastmancolor – 1,55:1, per poter filmare "a lume di candela", Kubrick tirò fuori dal cassetto tre speciali ottiche che aveva acquistato dalla NASA un decennio prima, con un’apertura f/0.7.
Obiettivi dell’azienda tedesca Zeiss che l’agenzia spaziale aveva commissionato per le missioni sulla Luna per fotografare la faccia non illuminata dal Sole.
Secondo gli esperti sono ancora oggi le ottiche più luminose mai prodotte in tutta la storia della fotografia. 
Kubrick utilizzò il 35mm f/0.7 e il 50mm f/0.7, montate su una cinepresa modificata per poter girare le complicate scene d’interno con la fioca luce delle candele.


La grandezza, non limitata solo all’aspetto tecnico-fotografico, dello sforzo archeologico/pittorico di Kubrick, purtroppo poco compreso dallo sguardo distratto e impreparato degli spettatori nel 1975, risiede anche in questa capacità di essere archetipo di una visione e di un racconto già multimediale. 
Si entra nella Storia con i tanti ‘zoom’ che portato lo sguardo dentro, attraverso, l’inquadratura.
Barry Lyndon opera, in rapporto al genere del film in costume, lo stesso profondo e radicale mutamento che 2001 Odissea nello spazio ha effettuato sul cinema di fantascienza. I costumi, gli ambienti, gli oggetti scenici, il paesaggio, la luce degli interni, il trucco degli attori, in una parola tutto ciò che definisce il genere, non è qui utilizzato come vestito, come costume del film.
Nel film di Kubrick la meticolosa veridicità dei dettagli non suggestiona mai col fascino indiscreto e malsano dell’imbalsamazione del passato, ma costruisce, inventa, immagina, esattamente come succede con i modellini, i fondali e le prospettive di 2001, lo spazio vitale, lo spazio psicologico, lo spazio sociale, lo spazio percettivo così come si costituiscono in un dato momento della storia.
E tutto ciò traspare in maniera evidente dal raffronto con un’altra opera uscita l’anno successivo al “Barry Lyndon” di Kubrick, ovvero il “Casanova” di Fellini. Il Settecento di Fellini è un luogo fantasticato, sognato, senza che mai ciò che si vede e si sente sullo schermo obbedisca a un bisogno di verosimiglianza.


Mentre “Barry Lyndon” è tutto giocato sulla maniacale ricostruzione di quegli anni, come ci sono stati tramandati dalla pittura e da ogni altra fonte, nel “Casanova” tutto è finto, è una bugia alla quale Fellini ci chiede di credere ciecamente.
E verrebbe da fare una considerazione non tanto peregrina: i film sul passato si fanno non solo coniugando il presente ma immaginando il futuro. 
Ciò che è troppo conosciuto ma lontano deve essere guardato come ciò che non si conosce ancora.
Barry Lyndon non come un’odissea nello spazio, ma come un’avventura nel tempo.
Fantascienza, in ogni caso.
Al ‘700 perfettamente ricostruito di “Barry Lyndon”, Kubrick fece seguire, nel 1980, Shining, tratto dall’omonimo libro di Stephen King.
E ancora una volta, con questo film, egli stravolse quelli che sino a quel momento, erano stati gli stereotipi classici del cinema horror.
Innanzitutto, la LUCE.
In tutti i film horror la contrapposizione tra buio e luce è associata a quella tra male e bene. Già dai primi film dell’orrore vi è una separazione completa fra queste due sfere: le creature del male sono relegate agli angoli scuri e alle zone in ombra delle scenografie, mentre gli eroi trovano la salvezza in posti pienamente illuminati.

Nosferatu - F. W. Murnau (1922)

Un buon esempio è dato dal Nosferatu di Murnau, forse il primo film che lavora consciamente con le convenzioni del genere da un punto di vista cinematografico. 
In questa pellicola il vampiro è legato in modo inscindibile alla notte e al buio: in quasi tutte le sequenze il suo arrivo è preannunciato dall’entrata in campo della sua ombra o dall’emergere del suo viso da uno spazio completamente nero.
Questa separazione netta fra i due settori, stabilisce che i personaggi malvagi trovino collocazione spaziale nelle parti in ombra di un ambiente e temporale nelle ore buie. La minaccia di queste figure nasce esattamente dalla possibilità di un sovvertimento di questo ordine prestabilito, con i mostri che fanno incursione nella sfera della luce per trascinare nel loro mondo buio i personaggi buoni.
Shining segue invece una strategia opposta: tutte le scene terribili si svolgono in piena luce, e l’ambiente principale, l’Overlook Hotel, è sempre insolitamente, inspiegabilmente illuminato a giorno; le scene notturne sono pochissime, a differenza di un comune film horror, e coincidono, significativamente, con gli sviluppi positivi della storia.
Un’operazione per certi versi simile a quella di Kubrick venne fatta da Carl Theodor Dreyer nel suo Vampyr del 1932, film nel quale il regista danese si discostò in maniera netta dagli stereotipi e dalle atmosfere dei film horror dell’epoca.
Anche in Vampyr prevale infatti l’ambientazione in luoghi aperti e alla luce del giorno e, nella composizione delle inquadrature, una sapiente gamma di grigi sostituisce il netto contrasto tra il bianco e il nero.

Vampyr - C. T. Dreyer (1932)

In Shining l’elemento maggiormente significativo sembra essere il labirinto, quel labirinto dal quale il bambino, con uno stratagemma, riuscirà a uscire mentre Jack vi rimarrà intrappolato, trovando la morte.
La stessa organizzazione dello spazio e del tempo del racconto risponde all’immagine del labirinto. Un hotel vuoto che appare gigantesco, privo di qualsiasi punto di riferimento: corridoi lunghi, ognuno uguale all’altro, porte chiuse, ascensori minacciosi, quella steadycam, qui per la prima volta usata in modo sistematico, che segue o precede i personaggi, risucchiandoli in uno spazio oscuro.
E poi un tempo che sembra avvolgersi su se stesso, fantasmi del passato che ritornano, un ripetersi di situazioni, figure, drammi, un ciclo cosmico.
Un groviglio, un labirinto, dal quale è impossibile districarsi. 
E che Kubrick rende in maniera assolutamente perfetta.
Perché sa benissimo che a far paura non è tanto il disordine, ciò che è oscuro. 
La paura nasce dall’impossibilità del controllo.
Caos è parola che etimologicamente indica uno spazio aperto, infinito, vitale. 
Il cosmo, l’ordine, invece, esprime chiusura e asfissia.
Le sue regole geometriche, matematiche sono una prigione inespugnabile, un mistero per iniziati.


Kubrick ci lasciava il 7 marzo del 1999, pochi giorni prima che venisse terminata l’opera di post produzione del suo ultimo film, forse il più affascinante e misterioso della sua filmografia, Eyes Wide Shut che, forse pochi sanno, venne completata dall’amico Steven Spielberg.

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