Fiumi di inchiostro sono stati utilizzati nel tentativo di comprendere la complessità dell'ultima opera di Kubrick, la sua grande ricchezza di significati.
Ma da dove nasce questa difficoltà che lo spettatore e/o il critico si trova a fronteggiare?
Una prima risposta, è riconducibile proprio alla natura del film: dalla sua uscita “Eyes Wide Shut” è stato definito un thriller, un film erotico, drammatico.
Niente di più sbagliato.
Bisogna forse rifarsi alla novella dalla quale Kubrick aveva tratto ispirazione per il suo film, a quel “Doppio Sogno” scritto da Arthur Schnitzler nel 1925.
Il romanzo, che appoggia le proprie radici sui pilastri della psicoanalisi, fece scalpore: la storia di Fridolin e Albertine, una coppia dall’apparente tranquilla esistenza borghese, viene sconvolta dai racconti di lei, che aveva confessato al marito fantasie sessuali ed extraconiugali.
Scosso da queste parole, Fridolin esce con un amico a bere un drink e accetta una parola chiave per partecipare a un segreto party in maschera.
Qui Fridolin ha un’avventura sessuale con un’estranea affascinante e, tornato a casa, confessa il suo tradimento alla moglie dopo che lei ha trovato la sua maschera sul cuscino. Albertine lo rassicura e gli dice di non preoccuparsi.
Schnitzler era considerato il “sosia” di Sigmund Freud e, aveva dovuto sopportare l’infedeltà di Olga, che aveva una relazione con il compositore Wilhelm Gross: questo aveva portato i due a separarsi.
Esponente del modernismo viennese, Schnitzler nutriva un interesse spiccato per le teorie dell’interpretazione dei sogni.
Il punto più interessante della storia di Schnitzler, oltre ad aver mescolato i piani di sogno e veglia, tramite il medioconscio, una sorta di limbo semireale in cui sogni e fantasie prendono piede nel mondo della realtà, è la scelta del giallo per arrivare alla soluzione finale.
Il metodo letterario dell’investigazione porta al fulcro del vero oggetto del giallo, non il medico in pericolo, l’orgia e la vestale “sacrificata” al posto suo ma la vendetta trasversale, che scivola dal piano onirico a quello reale, all’interno della coppia.
Se Albertine ha narrato di un sogno erotico, che ha profondamente turbato il marito, Fridolin lo ha messo in atto, abbattendo il muro tra il piano del sogno e della veglia.
In “Eyes Wide Shut”, il protagonista Bill, che attraversa la città di notte e poi ripercorre le stesse tappe alla luce del giorno, nella ricerca inutile di quello che ha o crede di avere visto, è ancora una volta emblema dell’uomo occidentale che quanto più spalanca gli occhi per vedere il mondo, tanto meno vede o riesce a capire quello che gli accade.
Come nel film “La ronde”, sempre tratto da Schnitzler e realizzato nel 1950 da Max Ophuls, anche qui i personaggi sembrano fantasmi, manichini di una strana giostra; ma chi li manovra non è più un malinconico narratore, come in “Barry Lyndon”, ma è solo un malvagio burattinaio che sta nascosto chissà dove e che forse non esiste neppure.
Il perfezionismo di Kubrick raggiunse il suo massimo in questo film.
Ciak ripetuti continuamente, scene interminabili solo per seguire la teoria che, una volta toccato il fondo, i suoi protagonisti si esaurivano e dimenticavano le telecamere, costruendo, quindi, qualcosa che né lui né loro avevano potuto prevedere.
Nessuno di loro si lamentava, pur di compiacere il maestro.
Ma Tom Cruise ricorda anche che: “Kubrick non era affatto indulgente. Non mollava la presa finchè il risultato non era perfetto. Fare un film con lui è come essere accoltellato al buio. Non sai mai cosa ti aspetta e io ero abituato ad avere almeno un quadro generale della pellicola che mi apprestavo a girare, fino ad allora. Con lui non potevo riguardare le mie scene già registrate, non sapevo quale avrebbe scelto”.
Oltre all’originale trattamento riservato agli attori, questi pagavano anche un prezzo molto alto emotivamente e personalmente parlando.
Kubrick invitò Tom Cruise e Nicole Kidman a confessargli i loro timori circa il matrimonio, le loro paure e angosce più profonde, scavando a fondo nel loro io, tirandogli fuori l’impossibile, promettendogli che avrebbe mantenuto, ovviamente, il segreto.
La Kidman ammise, successivamente, che: “Tom si sentì dire cose dalla mia bocca che avrebbe preferito non sentire. Sono state conversazioni brutali e oneste, ma non c’era nessuno psicologo che dopo ti dicesse “E adesso come ti senti”? o che ti proponesse una soluzione a riguardo. Il confine tra realtà e finzione era quindi annullato”.
Sul set del film, il muro di segretezza divise anche i due protagonisti. Per esasperare la sfiducia tra i suoi immaginari marito e moglie, Kubrick diresse ogni attore separatamente e gli vietò di scambiarsi commenti successivamente, soprattutto dopo aver girato le scene più erotiche, il che mandò in tilt soprattutto Cruise, gelosissimo di sua moglie.
E’ molto difficile amare il personaggio di Cruise, il dottor Bill Harford. E’ un uomo chiuso e a tratti viscido, un personaggio che fa scelte senza senso. Lo sceneggiatore Frederic Raphael aveva incluso nella sceneggiatura aspetti più duri come lo strano rapporto col padre, il suo senso di colpa per l’interesse verso l’anatomia femminile, mentre Kubrick aveva epurato tutti questi elementi, facendolo diventare solo un viaggiatore superficiale che guida il pubblico in un’odissea della tentazione sessuale, nascondendone anche il volto sotto una maschera per 20 minuti.
I critici parlarono di performance piatta, vuota, artificiale, snaturata, molto diversa dai personaggi che Cruise aveva portato al cinema precedentemente in film come “Jerry Maguire” o “Nato il 4 luglio” ma Cruise voleva compiacere il regista ed era contento di farlo, quindi era stato una sorta di “eccellente soldato kubrickiano” in questo, eseguendo tutti gli ordini sul set.
Proprio Cruise, un anno dopo, ammise durante un’intervista che: “Non mi piaceva recitare il ruolo del Dr. Bill. Non mi piaceva lui. E’ stato spiacevole. Ma mi sarei assolutamente preso a calci se non l’avessi fatto”.
Potere e carisma di uno dei più grandi registi di sempre, Stanley Kubrick.
Anche la morte di Kubrick, come lo era peraltro stata la sua vita, fu misteriosa e indecifrabile.
Scomparso, volatilizzato, un attimo prima c’era, l’attimo dopo non c’era più.
A stento la moglie Christiane chiamò la polizia, alle 13 circa del 7 marzo 1999, assolvendo a una formalità anagrafica che a lui certamente avrebbe ripugnato. “Stanley è morto all’alba, all’età di 70 anni“, fu detto all’agente in divisa, uno dei pochi mortali ammessi a varcare la soglia della casa settecentesca nel verde di St. Alban’s, a meno di due ore di macchina da Londra.
Gli venne consegnato il certificato medico già stilato, che accertava l’assenza di “circostanze misteriose della morte“, forse perché già abbastanza misteriose furono le circostanze della vita.
E fu annunciato al mondo che nient’altro sarebbe stato detto.
Era malato? E’ svanito nel sonno? Ha avuto il tempo di avvertire la fine del suo tempo mortale, ossessione personale di una vita?
Nessuno lo sa, e forse nessuno lo saprà mai.
E’ bello pensare che possa aver anche lui oltrepassato quel buco nero nel quale precipita il protagonista di “2001: Odissea nello Spazio” e chissà, magari ora ci stia osservando da lassù, come il Feto Cosmico dello stesso film, pronto a tornare sulla Terra sotto nuova forma.
“Un sogno non è mai soltanto un sogno”
(Stanley Kubrick)
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