venerdì 27 settembre 2024

Un uomo e il suo pianoforte

 

Forse nessun altro album come quello di cui andiamo a parlare, fotografa in maniera perfetta quello che possiamo senza alcun dubbio definire come un momento magico.
E’ la sera del 24 gennaio 1975, siamo alla Opera Haus di Colonia.
Già da due anni Keith Jarrett, pianista cresciuto alla corte di vere istituzioni della musica jazz, Miles Davis su tutti, aveva iniziato la collaborazione con Manfred Eicher, fondatore dell’etichetta discografica ECM, esibendosi in concerti nei quali egli affrontava il pianoforte senza alcun supporto, basandosi solo ed esclusivamente sull’improvvisazione, che si basava non solo sulla sua formazione jazzistica ma anche sulla sua formazione classica.
Quella sera, Jarrett aveva chiesto che sul palco fosse portato uno Steinway, il suo pianoforte preferito, quello sul quale aveva per anni coltivato l’arte dell’improvvisazione. Qualcosa non andò nel verso giusto e lo Steinway non arrivò mai.
Sebbene molti dell’organizzazione cominciassero a tremare (Jarrett diventerà tristemente famoso anche per le sue sortite da primadonna), il pianista aveva chiesto che in sostituzione fosse portato uno dei due Bösendorfer che erano dietro le quinte e che egli aveva precedentemente testato.
Ma quella sera era nata per essere speciale e, colmo di sfortuna, per un disguido, sul palco fu invece portato l’altro Bösendorfer, quello che il pianista aveva bocciato.
Tutti, Eicher compreso, erano a un passo dal gettare la spugna; ma non Jarrett che intravide in quella avversità uno stimolo in più per poter fare qualcosa di eccezionale. 
Con molto ritardo, il concerto ebbe inizio.


Ascoltando il disco si ha la netta sensazione che inizialmente Jarrett ed il pianoforte si studino l’un l’altro, fino a che il musicista non si abbandoni completamente e dia sfogo ad una sorta di flusso di coscienza, nel quale riversa tutte le sue esperienze musicali passate.
Un’avventura che segnerà indelebilmente il pianismo, jazz, new age o come dir si voglia, degli anni successivi.
I mugolii di Keith Jarrett, gli accordi complessi, la mano sinistra intrappolata da pause lunghissime, gli stomp del piede destro sul pedale e quelle lunghissime scale, che alternano i modi maggiore e minore in un flusso velocissimo, ibrido e irrisolto per almeno 15 minuti, contraddistinguono la prima parte (lunga circa 26 minuti), che, dopo una modulazione estremamente complessa, si conclude con una cavalcata gospel (riferimento fondamentale del jazz di Jarrett).
La seconda parte, denominata IIa, è caratterizzata da un ritmo ossessivo, ottenuto con la mano sinistra sui bassi, nel quale si innestano frammenti di melodie che, appena accennate si aggrovigliano tra loro, creando un insieme mai sentito.
Il tutto confinato in intervallo di note estremamente breve, l’unico consentito dal Bosendofer utilizzato.
Ascoltando la seconda sezione, la IIb, non si può non pensare alla folla di pianisti new age che ha di recente invaso il mercato discografico, il cui valore viene ovviamente sminuito dalla creazione di Keith Jarrett.
Dopo un inizio tranquillo ed ipnotico, il brano si sviluppa in un continuo e stordente cambio armonico e di tempo, concludendosi con una coda che ricorda l’atmosfera iniziale del concerto.
A questo punto Jarrett, dopo circa 50 minuti, riconduce gli spettatori nel territorio del jazz, avventurandosi in scale ed arpeggi mozzafiato, ma sempre estremamente melodici, terminando con un finale placido.
Già nel 1978 il disco, originariamente pubblicato in doppio vinile, aveva venduto 1.500.000 copie, ma quando nel 1990 la ECM dopo averlo rimasterizzato, pubblico The Koln Concert in versione cd, le vendite salirono a ben 5.000.000.
E’ davvero difficile descrivere l’esperienza derivante dall’ascolto di questo disco, che ti avvolge dolcemente nelle sue spire, lasciandoti con la consapevolezza di aver ascoltato qualcosa di unico, ma anche con l’amarezza di non aver potuto assistere di persona al verificarsi di questo vero e proprio miracolo musicale.
Se dovessimo lasciare testimonianza delle capacità del genere umano e della sua creatività a dei visitatori provenienti da altri mondi, beh, questo album sarebbe sicuramente un’ottimo modo di presentarsi.
Sia che siate appassionati di musica pop, rock, punk, classica, lirica, etc., credo proprio che un disco come The Koln Concert non possa mancare nella vostra collezione personale.

Nanni Moretti, nel suo film “Caro Diario” ha utilizzato un frammento di questo concerto in una sequenza molto particolare: un lungo piano sequenza durante il quale il regista, alla guida della sua Vespa, attraversa una Roma deserta, ferragostana, fino a giungere sul litorale di Ostia, nel punto in cui, in una notte del 1975, cioè lo stesso anno in cui si tenne questo concerto, in circostanza a tutt’oggi ancora non chiarite del tutto, fu ucciso Pier Paolo Pasolini.


Spesso le musiche e le immagini dei film sono talmente in simbiosi da sfiorare la perfezione, ma in questo caso non si tratta di perfezione ma bensì di una perfetta comunanza di intenti.
Come lo straordinario piano sequenza di Moretti, che dura esattamente 5 minuti, mostra i sentimenti del regista, così le note dolenti del moderato crescendo del brano evidenziano lo stato d’animo di Keith Jarrett.

“Non possiedo nemmeno un seme quando comincio a suonare. E' come partire da zero. Il jazz è lasciare che la luce brilli. Non cercare di accrescerla, lasciarla essere”  
(Keith Jarrett).





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