Gli anni che vanno dal 1919 al 1933, durante i quali si attua l'esperienza della cosiddetta "Repubblica di Weimar", rappresentano uno dei momenti più complessi e turbolenti della storia tedesca, un'epoca segnata dalla fine della Prima Guerra Mondiale, dalla sconfitta tedesca e dal peso schiacciante del Trattato di Versailles, che gravava pesantemente sulla nazione.
La fragile repubblica nata dalle ceneri del Secondo Reich era tormentata da instabilità politica, economica e sociale, il che contribuì all'ascesa di movimenti artistici profondamente segnati dall'angoscia esistenziale, dalla ribellione e dalla critica feroce della realtà contemporanea.
In questo contesto, l'espressionismo emerse come una forma d'arte che, nel suo fervore emotivo e nella sua rappresentazione distorta della realtà, cercava di dare voce a una società disgregata. Le opere espressioniste, siano esse cinematografiche o pittoriche, esprimevano lo stato d’animo collettivo di una Germania sconfitta, frammentata e piena di timori sul proprio futuro.
Il movimento espressionista, già radicato nelle arti visive prima della Grande Guerra, trovò nel cinema uno spazio ideale per amplificare la sua forza comunicativa attraverso la distorsione della forma, l'uso drammatico di luci e ombre e la rappresentazione di un mondo onirico e angosciante.
Profonde erano le connessioni estetiche e concettuali tra il cinema espressionista tedesco e la pittura espressionista, con entrambi i linguaggi artistici che riuscivano ad esprimere il terrore, il caos, la sofferenza di un'epoca, interpretando in modo magistrale le turbolenze e i traumi della Germania post-bellica.
Dopo la devastazione della Prima Guerra Mondiale, la Germania si trovò in una condizione di sconfitta umiliante, accompagnata da un profondo senso di disillusione e di paura. La perdita del valore morale e la disgregazione della struttura sociale portarono molti artisti a rifiutare le convenzioni del realismo, cercando invece un linguaggio più idoneo per esprimere il malessere interiore e collettivo.
L'espressionismo rifiutava la mera rappresentazione oggettiva della realtà per abbracciare una visione soggettiva, deformata dalle emozioni.
Questo movimento si concentrava sull'interiorità dell'individuo, sulla sua sofferenza, sul tormento psicologico e sull’alienazione, riflettendo una società che sembrava in procinto di esplodere. La pittura espressionista, dominata da figure tormentate e paesaggi straziati, trovava nei colori forti e nelle forme distorte un modo per rappresentare la disumanità della modernità. Questi temi si ritrovano potentemente anche nel cinema espressionista, che, grazie alla natura visiva e dinamica del mezzo, poteva esplorare ulteriormente l'angoscia esistenziale, amplificandone l'impatto.
Uno dei motivi ricorrenti nelle opere espressioniste, tanto pittoriche quanto cinematografiche, è la rappresentazione della città come un luogo alienante e opprimente. Questo tema riflette la percezione delle metropoli moderne come spazi in cui l'individuo viene risucchiato e annientato dalle forze disumane della tecnologia e del capitale. In film come Metropolis di Fritz Lang, la città diventa una gigantesca macchina che schiaccia l'umanità sotto il suo peso.
Allo stesso modo, pittori come George Grosz e Otto Dix rappresentano Berlino come un luogo di decadenza morale e di alienazione estrema, popolato da figure deformate e disumanizzate.
Georg Grosz - Metropolis (1918) |
Il cinema espressionista tedesco fu una delle manifestazioni più potenti e iconiche dell'estetica espressionista. L'esperienza cinematografica permette di immergersi completamente nel mondo distorto e allucinatorio creato dagli artisti, sfruttando non solo la potenza visiva delle immagini, ma anche la dimensione temporale e narrativa del mezzo che, a differenza della pittura, può plasmare il tempo e lo spazio, creando un'esperienza ancora più immersiva e destabilizzante per lo spettatore.
Nel febbraio del 1920, a Berlino, venne proiettato per la prima volta Il gabinetto del dottor Caligari,di Robert Wiene, la cui originalità colpì a fondo l’immaginazione del pubblico tedesco e successivamente quella del pubblico internazionale. Il film inizia con uno dei personaggi, Franz, che racconta ad un anziano signore la sinistra storia, accaduta nel 1830, nel piccolo paese di Holstenwall, dove un certo dottor Caligari, giunge per presentare il suo sonnambulo, Cesare, capace di predire il futuro. Contemporaneamente al suo arrivo, cominciano ad avere luogo nel paese delle morti sospette. Il racconto di Franz terminerà con la reclusione forzata del dottor Caligari in un manicomio. Solo alla fine scopriremo che tutti i personaggi del racconto di Franz, compreso lui stesso, sono in realtà gli ospiti di un manicomio e che il dottor Caligari altri non è che il dottor Oscar, medico e direttore dell’istituto.
La realtà distorta, come raccontataci da Franz, trova un riscontro iconografico nelle scenografie dalle geometrie deformate, nelle inquadrature-scene concepite e composte come opere pittoriche, dove gli attori si muovono in maniera innaturale, quasi danzando, divenendo così parte della scenografia stessa, come nella scena in cui vediamo il sonnambulo Cesare muoversi rasente al muro quasi confondendosi con esso. Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene divenne il capostipite di quel genere cinematografico che fu chiamato espressionismo per via delle affinità con il movimento artistico.
Questa visione deformata della realtà si riflette infatti nelle opere di pittori come Ernst Ludwig Kirchner, membro del movimento Die Brücke, che nelle sue rappresentazioni urbane distorceva figure e spazi per comunicare un senso di alienazione e di angoscia. Nel dipinto Strada di Berlino (1913), ad esempio, le figure umane appaiono allungate e spigolose, quasi scheletriche, immerse in un'atmosfera inquietante. Allo stesso modo, i personaggi di Caligari sembrano marionette disumanizzate, mosse da forze esterne e oscure.
Questa sovrapposizione tra il cinema e la pittura espressionista non è casuale, poiché molti degli scenografi e dei decoratori che lavorarono a Caligari provenivano direttamente dal mondo dell'arte visiva. I pittori Walter Reimann, Walter Röhrig e Hermann Warm, che disegnarono le scenografie del film, erano profondamente influenzati dall’estetica espressionista e cercarono di trasporre sullo schermo gli stessi effetti visivi di deformazione e di distorsione emotiva che caratterizzavano la pittura contemporanea.
L’estetica del cinema espressionista non può essere scissa dalle tematiche trattate. Malati di mente, vampiri, giganti di argilla (Il Golem di Paul Wegener), mostri, sono i soggetti che ricorrono con più frequenza.
Mostri che irrompono in uno spazio scenico che intende ricercare un ordine geometrico, piuttosto che rappresentarlo. I temi trattati dai film espressionisti riflettono appieno quelle che erano le tensioni di fondo che animavano la società tedesca di quegli anni.
Sigfried Kracauer, nel suo libro "Da Caligari a Hitler: una storia psicologica del cinema tedesco" (1947), sviluppa un’analisi del cinema tedesco degli anni Venti, sostenendo che esso anticipasse, a livello simbolico e culturale, l’ascesa del nazismo.
In particolare, Kracauer vede nel film diretto da Robert Wiene, una rappresentazione premonitrice dei meccanismi autoritari e della manipolazione delle masse che caratterizzeranno il regime nazista.
Secondo Kracauer, il personaggio del dottor Caligari, uno scienziato folle che controlla il sonnambulo Cesare per compiere omicidi, simboleggia il potere autoritario che soggioga la volontà individuale. Questo riflette, secondo lo studioso, una tendenza nella società tedesca del tempo verso l’accettazione passiva dell'autoritarismo, una predisposizione che avrebbe facilitato l’ascesa del totalitarismo hitleriano.
Caligari rappresenta il despota, mentre Cesare incarna il popolo, ridotto a uno strumento nelle mani del tiranno.
L'uso dell'estetica espressionista nel film, con i suoi scenari distorti e angoscianti, riflette, per Kracauer, una condizione psicologica collettiva di alienazione e confusione nella Germania del primo dopoguerra. Questi sentimenti di instabilità e paura, espressi visivamente attraverso l'arte e il cinema, erano segni del malessere che portò alla radicalizzazione politica e alla ricerca di soluzioni estreme, come il nazionalsocialismo.
In sintesi, Il gabinetto del dottor Caligari non anticipa il nazismo in modo esplicito ma, secondo Kracauer, cattura i sentimenti di ansia e alienazione della società tedesca postbellica, segnali che prefiguravano la volontà di sottomissione a un leader autoritario, aprendo la strada al regime nazista.
Anche in film come Nosferatu (1922) di F.W. Murnau, la figura del vampiro è un'allegoria visiva della morte e del decadimento. Il conte Orlok, con il suo aspetto cadaverico e i suoi movimenti rigidi, ricorda le figure spettrali dipinte da Edvard Munch, in particolare ne L'urlo (1893), dove la figura centrale, con il volto contorto e la bocca spalancata in un grido silenzioso, diventa un simbolo dell'angoscia e della disperazione universale.
Murnau, attraverso un sapiente uso delle ombre e delle luci, riesce a creare un'atmosfera di minaccia palpabile, che amplifica ulteriormente l’inquietudine emotiva suscitata dalla figura del vampiro.
I paralleli tra la pittura espressionista e il cinema tedesco non si fermano alla semplice rappresentazione del caos interiore. Entrambi i linguaggi artistici utilizzano la deformazione e la stilizzazione come strumenti per esplorare il subconscio e le paure nascoste della società. La trasfigurazione del corpo umano è uno degli aspetti più evidenti di questa estetica condivisa.
Artisti come Egon Schiele e Otto Dix concentravano gran parte del loro lavoro sulla rappresentazione del corpo in decomposizione, distorto, ridotto alla sua essenza scheletrica. Le figure umane di Schiele sono allungate, quasi disarticolate, in pose innaturali che suggeriscono un'intensa sofferenza interiore. Questo tipo di deformazione è ripreso nel cinema espressionista, dove i corpi dei protagonisti spesso subiscono una metamorfosi visiva, divenendo simboli di stati d’animo e di tensioni psicologiche.
Ancora nel già menzionato Il gabinetto del dottor Caligari, il sonnambulo Cesare, interpretato dall'attore Conrad Veidt, si muove in modo rigido e meccanico, quasi come una marionetta. Il suo volto pallido e cadaverico, gli occhi spalancati e vuoti, lo rendono una figura inquietante, che sembra non appartenere al mondo dei vivi.
Questa rappresentazione ricorda le figure scheletriche di George Grosz, che nelle sue opere satiriche e brutali, come I pilastri della società (1926), ritraeva la borghesia tedesca come una massa di automi vuoti, corrotti e disumanizzati.
Anche il trattamento dello spazio urbano nel cinema espressionista riflette le deformazioni visive presenti nella pittura contemporanea. Nel film Metropolis di Fritz Lang, la città del futuro è rappresentata come un gigantesco complesso meccanico, dove gli edifici si ergono in modo minaccioso, dominando la scena e riducendo l’uomo a una minuscola entità sottomessa al potere delle macchine. Questa visione distopica della città moderna trova un parallelo nei dipinti di Max Beckmann, dove l'architettura urbana diventa un labirinto claustrofobico, pieno di angoli oscuri e minacciosi.
Otto Dix e altri pittori espressionisti come George Grosz, nelle rispettive opere, documentarono impietosamente le cicatrici fisiche e psicologiche lasciate dalla guerra, mostrando corpi contorti e mutilati che evocavano la disumanizzazione dell'individuo in una società che si stava rapidamente industrializzando e che sembrava aver perso ogni valore morale.
Questo trattamento spietato del corpo umano come testimonianza dell'orrore non si limitava alla pittura, ma trovava un'eco potentissima nel cinema espressionista, dove la figura umana, sia come personaggio che come simbolo, veniva spesso raffigurata in modi altrettanto angosciosi.
In Nosferatu la figura del conte Orlok è un esempio lampante di come il cinema espressionista reinterpretasse e deformasse il corpo umano per rappresentare il terrore e la disumanizzazione. Il corpo allungato e scheletrico di Orlok, con le sue dita sproporzionatamente lunghe e il volto pallido e cadaverico, è l’incarnazione visiva della morte stessa.
La sua camminata lenta e rigida, così come la sua presenza minacciosa, sembrano provenire da un mondo di ombre e di terrore, il che lo rende più vicino a una rappresentazione simbolica dell'angoscia esistenziale che non a un semplice vampiro.
Il parallelismo tra la pittura e il cinema è evidente anche nell'uso del primo piano, che diventa uno strumento di grande intensità emotiva nel cinema espressionista. Nei film, il volto dei protagonisti, deformato da luci e ombre drammatiche, diventa una maschera di paura, terrore e alienazione, in modo simile ai volti esasperati che emergono nelle opere di artisti come Emil Nolde.
In film come Il gabinetto del dottor Caligari, la cinepresa cattura i volti in inquadrature ravvicinate che amplificano l'effetto emotivo e lo straniamento del personaggio, trasmettendo al pubblico la sua angoscia interna. Questo uso stilizzato del volto umano, sia nel cinema che nella pittura, ha una funzione simbolica: non rappresenta più il volto di una persona reale, ma diventa il riflesso dell’inconscio, un ritratto della paura, del dolore o della follia.
In Metropolis di Fritz Lang, il tema della disumanizzazione attraverso il corpo umano raggiunge un apice visivo. Il personaggio di Maria, che viene trasformata in un robot, diventa il simbolo per eccellenza della perdita dell'umanità nella società moderna.
Il suo corpo meccanico, una parodia disumanizzante dell'essere umano, riflette le ansie del tempo riguardo alla crescente industrializzazione e alla perdita dell'identità individuale. Questo tipo di rappresentazione è speculare alla visione espressionista della figura umana, dove il corpo è spesso deformato per simboleggiare l'alienazione derivante dall'azione delle forze oscure della società.
Proprio Metropolis (1927) di Fritz Lang, il cui linguaggio visivo si discostava ormai dai principali canoni estetici che avevano caratterizzato i film precedenti, fu l'opera che chiuse l’esperienza espressionista, visto che i suoi eccessivi costi di produzione finirono con il dare il colpo di grazia ad una cinematografia già crisi.
Metropolis rappresenta contemporaneamente l’apogeo e il tramonto del cinema tedesco degli anni Venti. La magnificenza dei suoi apparati scenografici, la perfezione dei suoi effetti speciali, ne fanno uno dei capolavori più visionari della storia del cinema. Ma questi elementi resterebbero pure attrazioni se il film non fosse retto da un solido impianto narrativo sotto il quale scorrono molteplici ed inesauribili sensi allegorici.
Il tema della città divisa in due, in cui una élite di cittadini prospera riducendo altri in schiavitù, è ormai divenuto una sorta mito nell’immaginario cinematografico, ripreso in svariati film di fantascienza come Blade Runner, o Matrix, ma anche di animazione come l’omonimo anime Metropolis, diretto nel 2001 dal giapponese Rintaro.
Ma l’aspetto più stupefacente di Metropolis è quello dell’allegoria che si fa profezia. Si sa che il film era il preferito di Adolf Hitler, il quale ne possedeva una copia esclusiva che guardava ripetutamente.
Ebbene, come potrebbero le scene del cambio di turno tra gli operai della Città Bassa, non far correre un brivido lungo la schiena, visto che esse richiamano alla mente l’ orrore dei campi di sterminio?
Anche l'uso delle luci in Metropolis è un elemento fondamentale per comprendere la visione espressionista del futuro. Le luci forti e abbaglianti che illuminano i grattacieli della città futuristica, contrastano con le ombre scure e minacciose che avvolgono le parti sotterranee della metropoli. Questo gioco di luci e ombre non è solo una scelta estetica, ma rappresenta il conflitto tra la tecnologia e l'umanità, tra il progresso e l'oppressione.
In questo senso, Metropolis riflette un tema caro all'espressionismo: l'incapacità dell'uomo moderno di controllare le forze che egli stesso ha creato.
F. W. Murnau, regista di Nosferatu, oltre che dell’espressionismo, fu anche uno dei massimi esponenti del kammerspiel, un altro genere molto frequentato dai registi tedeschi degli anni venti e che per certi versi può essere considerato l’opposto dell’espressionismo. Kammerspiel significa letteralmente “dramma da camera”, i film ascrivibili a questo genere si basano su storie drammatiche che ruotano intorno a uno o pochi personaggi, prediligendo le ambientazioni interne e raccolte.
La recitazione, sovrabbondante nell’espressionismo, diventa qui misurata e controllata. La cinepresa si avvicina al personaggio per scrutarne ogni minima emozione.
Ne L’ultima risata (1924), Murnau riesce straordinariamente a coniugare kammerspiel ed espressionismo. La drammatica vicenda di un portiere d’albergo che perde il suo posto di lavoro ci viene narrata attraverso un’estetica espressionista rintracciabile ancora in quella soggettivazione della realtà e nella composizioni dell’inquadratura.
Se l’espressionismo predilige inquadrature statiche, nel kammerspiel la cinepresa si fa fluida e mobilissima. Segue passo a passo i personaggi come a pedinarli senza però, arrivare mai a penetrarli: osserva il loro dramma da vicino, ma con costante distacco.
Una scena esemplare in questo senso possiamo trovarla proprio ne L’ultima risata, quella in cui il protagonista apprende di essere stato rimosso dal suo incarico. La cinepresa è collocata all’esterno di una finestra che incornicia i due personaggi: il portiere e il direttore dell’albergo.
Non appena il primo ha terminato di leggere il contenuto della lettera consegnatagli dal superiore, la cinepresa comincia a muoversi in avanti, attraversa i vetri della finestra e si arresta al suo fianco escludendo dall’inquadratura l’altro personaggio. Ma l’espressione sul volto del portiere ci è leggibile solo in parte giacché questi è ripreso di profilo.
Numerosi altri movimenti di macchina, più complessi ed elaborati sono presenti in questo film: nella scena iniziale Murnau colloca la cinepresa su un ascensore in movimento e poi la spinge in avanti fino alla porta girevole dove incontriamo il protagonista.
Come Cabiria di Giovanni Pastrone (1914)aveva sdoganato l’uso del carrello, così avvenne per i movimenti di macchina con L’ultima risata.
I movimenti di macchina non rappresentavano una novità assoluta, ma la maestria con cui Murnau li eseguì liberò una volta per tutte la cinepresa dal peso del treppiedi.
Questo testimonia anche l’alto livello tecnologico raggiunto dal cinema tedesco degli anni Venti. All’inizio del decennio, infatti, l’industria cinematografica nazionale era stata avvantaggiata dall’inflazione del marco che rendeva i suoi prodotti appetibili all’estero e favoriva la produzione di colossal a basso costo, vigeva inoltre il divieto di importare film dall’estero.
Il peggioramento della situazione politica tedesca, sfociata poi nell'avvento del nazismo, determinò la fine dell'esperienza artistica dell'espressionismo.
Tra il 1937 e il 1939, furono rastrellate e selezionate circa seicento opere moderniste tra le decine di migliaia sequestrate dalle collezioni pubbliche e private sotto il controllo del regime ed esposte in una mostra itinerante, allestita in diverse città tedesche e austriache, denominata "Entartete Kunst" (Arte Degenerata).
Furono rimosse, talvolta anche eliminate, tutte le opere moderniste realizzate in Germania prima del 1933, nonché perseguitati tutti gli artisti d’avanguardia.
Gli artisti d’avanguardia coinvolti nella censura nazista furono: cubisti, espressionisti, astrattisti, dadaisti e surrealisti.
Anche il Bauhaus di Berlino fu vittima dell’epurazione quando i nazisti irruppero nell’edificio e lo misero sotto sequestro.
Gli artisti, così come tanti intellettuali, soprattutto quelli di origine ebrea, non allineati ai voleri del Führer, furono costretti all’esilio: secondo le stime, dal 1933 al 1941 furono circa 25.000 gli apolidi che lasciarono i territori del Terzo Reich alla ricerca di un rifugio. Molti di questi, tra i quali Fritz Lang, F.W. Murnau ed altri cineasti, emigrarono verso gli Stati Uniti dove erano già noti ed apprezzati e contribuirono con i loro talento e le loro esperienze allo sviluppo del cinema classico degli anni Trenta.
L’espressionismo, sia cinematografico che pittorico, negli anni in cui Freud perfezionava le sue teorie sull'inconscio (Freud in realtà considerava espressionisti e surrealisti alla stregua di "matti") resta un'esperienza unica e uno degli strumenti più potenti per esplorare le profondità dell’inconscio collettivo e per dare forma alle paure e alle tensioni di un’epoca segnata da disordini politici, economici e sociali.
I legami tra cinema e pittura espressionista non sono solo visivi, ma tematici, poiché entrambi i linguaggi cercarono di rappresentare, attraverso la distorsione e la stilizzazione, il caos e l'alienazione di una società post-bellica che faticava a ritrovare un senso di stabilità e identità.
Le figure contorte e sofferenti, gli spazi urbani deformati, le ombre minacciose e le luci abbaglianti diventarono i simboli di un mondo sull’orlo della disgregazione, anticipando in molti modi l’orrore che sarebbe venuto con l’ascesa del totalitarismo.
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