Era il 1978, domenica pomeriggio, quando durante il programma/contenitore televisivo Domenica In, all'epoca condotto da Corrado Mantoni, i telespettatori assistettero a una delle scene più surreali mai trasmesse dalla televisione italiana, con lo stesso presentatore che si trovò a rivolgere delle domande a 4 strani manichini in camicia rossa e cravatta, simulacri dei loro creatori Florian Hutter, Ralf Schneider, Karl Bartos e Wolfgang Flur.
I Kraftwerk.
Era il momento di The Man-Machine, settimo disco della band di Düsseldorf; uno di quegli album che andrà a ridefinire, o meglio, creare, il concetto di pop elettronico affrontando il rapporto e lo stretto legame uomo-macchina con brani con The Robots o con le visioni futuristico-urbane di Metropolis, quest’ultimo dedicato, ovviamanente, al regista Fritz Lang. L’intervista in studio raggiunge livelli di surrealismo mai visti prima, soprattutto su una canale pubblico nazionale. I quattro manichini sono seduti in prima fila, uno affianco all’altro.
Corrado domanda: “Siete contenti di essere qui a Domenica In?”, e la risposta con voci robotiche è parte del testo di The Robots, in tedesco
Wir sind die Roboter
Wir sind die Roboter
Wir sind die Roboter
Wir sind die Roboter
Corrado rilancia: “È la prima volta che venite qui in Italia?”, e loro all’unisono:
We-are-the-robots
We-are-the-robots
We-are-the-robots
We-are-the-robots
si può tranquillamente affermare che nessuno ha esercitato sullo sviluppo della moderna musica popolare un'influenza paragonabile ai Kraftwerk. Non i Velvet Underground, che pure fecero diventare adulto il rock ma la cui influenza non ne ha mai valicato i confini; né i Beatles, che per primi diedero una dignità culturale al pop e ne saranno sempre la massima icona.
Prima di gridare allo scandalo e alla lesa maestà, riflettete su quanto segue. Senza l'influenza del gruppo di Dusseldorf, la new wave avrebbe avuto uno sviluppo assai differente. I Devo, gli Ultravox, i primi Simple Minds, Gary Numan, i Depeche Mode, gli Orchestral Manoeuvres in the Dark, i D.A.F. sono semplicemente inconcepibili in assenza dei Kraftwerk. La loro lezione plasmò le ali estreme del movimento: da un lato il solare pop degli Human League, dall'altro la cupa avanguardia dei Cabaret Voltaire.
Contemporaneamente, mostravano la strada a Giorgio Moroder, autore di tutti i successi di Donna Summer, infiltrando l'elettronica nella disco. E anche nella musica da ballo influenzarono nello stesso tempo i settori più commerciali e l'underground: l'electro fu una loro invenzione (omaggio più clamoroso: i Fearless Four che costruiscono Rockin' it sulle fondamenta di The Man-Machine) e la scena go-go di Washington (omaggio più spudorato: i Trouble Funk che si appropriano indebitamente di Trans Europe Express) trovò nel gruppo tedesco una fonte occasionale ma importante.

I pionieri dell'hip-hop consumarono i loro dischi e Afrika Bambaataa scrisse uno dei primi classici del genere, Planet Rock, incrociando Trans-Europe Express con Supersperm di Captain Sky: il kraut-rock e il p-funk si incontravano e generavano il primo di innumerevoli, magnifici bastardi mutanti.
E ciò ci porta agli anni Novanta, alla celebre definizione della techno data da uno dei suoi maestri, Derrick May: "La techno sono George Clinton e i Kraftwerk chiusi insieme in ascensore". Senza il gruppo di Dusseldorf, la scuola di Detroit che ha generato house e techno non è nemmeno immaginabile. Poiché se mancano i padri non vi può essere progenie, spariscono di riflesso Chemical Brothers e Daft Punk.
Niente 808 State, L.F.O, Orbital e, sul versante ambient: bye bye Aphex Twin.
Se è innegabile che nella storia della musica di questo secolo, dal primo jazz e dal blues in avanti, sono stati quasi sempre i neri a tracciare le strade poi percorse, e sovente espropriate, dai bianchi, è altresì vero che i Kraftwerk costituiscono un'eccezione, l'unica.
Sono i soli bianchi ad avere influenzato dei neri che a loro volta hanno influenzato altri bianchi. E' questo a rendere la loro presenza così pervasiva nella musica odierna: non pubblicano materiale inedito da tantissimi anni, eppure la loro importanza resta inalterata.
A chi si stupisce del connubio fra una musica calda per eccellenza, quale è la black, e una musica fredda come l'elettronica propugnata dai dusseldorfiani è sfuggito molto di costoro, quasi tutto. Li ha magari sentiti, ma non li ha mai ascoltati. Avrebbe dovuto se no percepire l'umanità profonda che pulsa al centro della macchina Kraftwerk. Vi è in esso un romanticismo tipicamente mitteleuropeo ma anche un sentire che è inconfondibilmente soul.
Non è certo il soul di Otis Redding o di James Brown, ma gli è parente, e questo spiega perché al newyorkese Ritz nel 1981 (il concerto probabilmente più importante della storia dei Kraftwerk) il pubblico era in maggioranza di colore.
Tra gli spettatori vi era anche Afrika Bambaata il cui ricordo è "Fu funky".
La loro musica è stata sempre rivolta a un pubblico di ogni razza anche nella stesura dei testi, essenziali come le architetture dei brani e redatti spessissimo in più lingue. Non solamente tedesco e inglese ma anche francese, italiano, giapponese. La specificità tedesca è l'architrave dell'universalità di canzoni dall'ironia sottile, amarognole ma in fondo ottimiste come un romanzo di Asimov.
Se la musica dei Kraftwerk è sempre stata proiettata in avanti, testi e immaginario hanno sempre saputo più di modernariato che di modernità.
La loro è una visione del futuro che viene da un passato in cui era possibile immaginare tempi a venire prosperi e ordinati, fatti di città linde, immensi spazi verdi, autostrade a otto corsie regolate da giganteschi cervelli elettronici.
Prima della guerra del petrolio e del microchip.
Prima di Blade Runner.
Prima del cyberpunk.
Prima che ci accorgessimo di essere irrimediabilmente fottuti.
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