mercoledì 21 maggio 2025

Magnifiche ossessioni 5 : Il cielo sopra Berlino (1987)

 

"Als das Kind Kind war…" – La nostalgia dell’invisibile

Als das Kind Kind war,
wußte es nicht, dass es Kind war,
alles war ihm beseelt,
und alle Seelen waren eins.

Quando il bambino era bambino,
non sapeva di essere un bambino,
tutto era animato per lui,
e tutte le anime erano una cosa sola.

Con questi versi, sussurrati nella penombra interiore della coscienza, Il cielo sopra Berlino si apre come una preghiera, una meditazione che attraversa i secoli, le rovine, le lingue e i muri di una città divisa. Wim Wenders non gira semplicemente un film: compone una sinfonia visiva sulla memoria, sull’invisibilità e sull’anelito umano alla presenza. È il 1987. Berlino è ancora tagliata in due. Il Muro è una ferita viva e concreta nel corpo urbano e nell’anima collettiva. 
E Wenders sceglie di raccontare questa lacerazione non con la retorica della denuncia, ma con la delicatezza dello sguardo invisibile.

Il cielo sopra Berlino nasce in un momento di profondi cambiamenti politici, culturali e simbolici. La Guerra Fredda è nella sua fase finale, anche se ancora nessuno può prevedere che il Muro crollerà due anni dopo, nel 1989. Berlino è il cuore congelato di un’Europa divisa, il simbolo della separazione, della sorveglianza, ma anche della resistenza poetica. 
È una città abitata da fantasmi, e non solo in senso figurato. 
Lo è per davvero nel film di Wenders: angeli eterni, custodi silenziosi che ascoltano i pensieri degli uomini, che accarezzano le loro sofferenze, che osservano ma non possono intervenire.

Wenders, reduce dal successo internazionale di Paris, Texas (1984), torna nella sua Germania con un progetto ancora più ambizioso: dare forma visiva all’invisibile. 
L’idea nasce da una conversazione con il suo amico Peter Handke, che scrive appositamente la poesia iniziale e i monologhi interiori che scandiscono l’opera. Ma Il cielo sopra Berlino è anche figlio di un'esigenza esistenziale: raccontare l'umanità nel suo stato più fragile e potente, attraverso lo sguardo di chi umano non è, ma che desidera esserlo.


Damiel (Bruno Ganz) e Cassiel (Otto Sander) sono due angeli che camminano su Berlino, invisibili agli occhi degli uomini, eterni testimoni della storia. Vanno in biblioteca, ascoltano le conversazioni nei mezzi pubblici, si siedono accanto ai morenti, agli emarginati, agli innamorati. Hanno il privilegio dell’eternità, ma ne portano il peso. Damiel, in particolare, è stanco dell’immaterialità. Vuole toccare, assaporare, vivere. Vuole il peso della materia, il dolore e la gioia della carne. È l’archetipo dell’angelo caduto, ma non per colpa: per desiderio. Il desiderio di essere parte.
Il passaggio dal bianco e nero al colore, un tratto distintivo del film, segna proprio il momento in cui Damiel sceglie di diventare umano. Il mondo degli angeli è monocromatico, rarefatto, contemplativo. Quello degli uomini è caotico, sporco, ma anche pieno di luce e suono. 
Wenders usa la fotografia di Henri Alekan (lo stesso di La Belle et la Bête di Jean Cocteau) per creare un contrasto visivo e filosofico tra due piani dell’esistenza.

La città è forse il vero protagonista del film. Berlino non è solo lo sfondo, ma un organismo vivente, un palinsesto di memoria e di perdita. Wenders gira tra le rovine della Potsdamer Platz, tra gli edifici brutalisti, nei teatri dismessi, nelle baracche e sotto i viadotti. Lontana dai cliché da cartolina, Berlino emerge come una città interiore, in cui ogni luogo è un segno, ogni volto una storia.
Il Muro, onnipresente, non viene mai mostrato come elemento ideologico. È lì, come un silenzioso confine tra mondi, un memento mori della storia. Ma il film non parla solo della divisione tra Est e Ovest: parla di tutte le divisioni possibili, tra visibile e invisibile, tra eterno e temporale, tra ascoltare e agire, tra osservare e vivere.


Marion (Solveig Dommartin) è una trapezista in un circo che si sta sciogliendo. È fragile, sola, in cerca di un centro. È il volto umano della poesia, la carne viva che chiama Damiel verso la caduta. Il loro incontro è fatto di sguardi, di presenze, di attese. Non c’è una storia d’amore convenzionale. C’è una tensione mistica, una fame di unione che è quasi religiosa. Quando finalmente Damiel si fa uomo, il gesto più semplice, una tazza di caffè caldo, il sapore del sangue dalle labbra spaccate, acquista il valore di un sacramento.
La poesia di Handke ritorna, ciclica, come un mantra che accompagna la metamorfosi. L’infanzia perduta è anche l’infanzia dell’umanità, la capacità di sentire il mondo come un tutto, di non distinguere tra ciò che è "me" e ciò che è "altro". Il film è un tentativo di recuperare questa unità primigenia.

L’apparizione di Peter Falk, che interpreta se stesso, ma anche un ex angelo che ha scelto l’umanità, è uno dei momenti più toccanti e stranianti del film. Falk, con la sua ironia affettuosa, diventa una sorta di Virgilio per Damiel. Gli ricorda che la vita è fatta di piccoli gesti, di odori, di cose da toccare e gustare. La sua figura unisce il cinema americano con quello europeo, il mondo dell’immaginario con quello della realtà. È una presenza quasi chapliniana: dolce, malinconica, profondamente umana.

Il cielo sopra Berlino è anche un film sulla conoscenza. Gli angeli ascoltano, leggono, osservano, ma non sanno cosa vuol dire "vivere". La loro sapienza è incompleta, perché manca dell’esperienza. È una critica implicita alla conoscenza occidentale, tutta fondata sulla razionalità, sulla distanza, sulla dominazione dell’oggetto. Il film suggerisce invece che la conoscenza autentica passa dal corpo, dal dolore, dall’empatia.
In questo senso, Wenders si avvicina a un pensiero fenomenologico ed esistenziale. La sua regia non impone, non spiega, ma accompagna. È un cinema che lascia spazio allo spettatore, che non riempie ogni buco narrativo, ma sollecita ogni spettatore a colmarlo con la propria sensibilità. Ogni monologo, ogni sguardo in macchina, ogni immagine sospesa, è un invito alla riflessione.

Alla sua uscita, Il cielo sopra Berlino fu accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, vinse la Palma d’Oro per la regia a Cannes nel 1987, e divenne un cult istantaneo. Ma più ancora dei premi, fu la sua capacità di parlare a generazioni diverse che ne decretò il successo. È un film che può essere visto come favola, come trattato filosofico, come poesia visuale.

Il suo seguito, Così lontano, così vicino! (1993), non riuscirà a replicarne la grazia, e nemmeno il remake americano City of Angels (1998), con Nicolas Cage e Meg Ryan, sarà all’altezza dell’originale, che resta un unicum: un’opera che trascende il proprio tempo, pur essendo profondamente radicata in esso.

Così lontano, così vicino! (1993)

In giorni come quelli attuali, in cui tutto è ipervisibile, ipercomunicato, iperpresente, Il cielo sopra Berlino ci ricorda il valore dell’invisibile. Dei sussurri. Delle cose non dette. È un film che ci invita a rallentare, ad ascoltare i pensieri dell’altro, a guardare con occhi che non vogliono possedere ma comprendere. È un’opera che ci dice che l’umanità non è un dato biologico, ma una conquista quotidiana.
"Quando il bambino era bambino…", con questi versi si apre un viaggio che non è solo cinematografico, ma esistenziale. In un tempo in cui i muri ritornano, sotto nuove forme, il film di Wenders ci invita ancora una volta a scavalcarli con lo sguardo.

Post Scriptum per il lettore del blog
Se non hai mai visto Il cielo sopra Berlino, non rimandare. Guardalo la notte, in silenzio, lasciandoti accompagnare dalla poesia delle immagini e dalla meravigliosa colonna sonora, che vede la partecipazione dei Crime & the City Solution e anche di Nick Cave.
E poi, come Damiel, chiediti: "Voglio davvero solo guardare, o vivere?"

Nick Cave in una scena del film (sullo sfondo si intravede Blixa Bargeld)





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