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| Edith Bruck |
«Sono contro chiunque usi la parola “genocidio“. Io l’ho vissuto e posso dirlo: il genocidio compiuto dai nazisti è completamente diverso. Era stato pianificato freddamente, a tavolino, da medici, scienziati, architetti che avevano studiato come agire. [Quello in corso a Gaza] è un massacro spaventoso, ma parlare di genocidio significa sminuire il valore di questa parola e di quello che era accaduto con i nazisti. Non bisogna fare confusione, non bisogna banalizzare. Con questo non voglio diminuire il dramma che si vive ogni giorno nella Striscia di Gaza, non voglio affermare che sia banale ma si tratta di due drammi molto diversi.»
Edith Bruck
Ci sono parole che pesano come macigni, che non possono essere usate con leggerezza, che portano dentro di sé la memoria di catastrofi umane e che diventano, per la loro stessa gravità, strumenti di lotta, di difesa, di denuncia. La parola “genocidio” è una di queste e non stupisce che Edith Bruck, sopravvissuta ad Auschwitz e custode di una memoria che non smette di sanguinare, scelga di difenderla, di custodirla come fosse un tempio sacro, opponendosi al suo utilizzo per descrivere quanto sta accadendo oggi a Gaza.
Lo fa con la forza della sua esperienza personale, con la lucidità che le appartiene, con il dolore di chi ha visto lo sterminio industriale progettato da un potere totalitario che voleva cancellare dalla faccia della terra un intero popolo. Ed è comprensibile che, per lei, ogni paragone appaia insostenibile, ogni assimilazione suoni come un’ingiustizia nei confronti dei milioni di ebrei sterminati, ogni volta che la parola “genocidio” viene pronunciata al di fuori di quel contesto sembri un impoverimento semantico, una banalizzazione di ciò che lei stessa ha subito.
Tuttavia, il rispetto dovuto alla sua testimonianza non può esimerci dal riconoscere l'errore che il suo ragionamento ripropone, lo stesso che, a ben vedere, ha accompagnato sinora ogni dibattito pubblico sul tema: la riduzione del genocidio a paradigma unico, la Shoah come metro assoluto e insuperabile, la creazione di una scala del dolore in cui tutto ciò che non raggiunge quell’apice di efficienza organizzativa e di gelo burocratico diventa automaticamente qualcosa di diverso, di meno grave, di meno definibile.
Ma questa visione, che nasce da una memoria sacra e personale, si scontra con il dato storico e giuridico, perché la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, nota sinteticamente come UN Genocide Convention, del 1948, non ha mai stabilito che il genocidio sia sinonimo di Auschwitz, non ha mai inserito l’Olocausto come esempio normativo, non ha mai chiuso il termine dentro il recinto del nazismo.
Anzi, chi scrisse quel testo lo fece con l’intenzione opposta: liberare la categoria da ogni unicità, renderla applicabile a diversi contesti, prevenire la possibilità che in futuro qualcuno potesse dire “non è come la Shoah, quindi non è genocidio”. Ed è qui che la filosofia della memoria si intreccia con la filosofia del diritto: se la prima tende a custodire l’irripetibilità, la seconda si incarica di riconoscere le ripetizioni, le varianti, le metamorfosi del male, anche quando non hanno i tratti del forno crematorio o della logistica tedesca ma quelli delle bombe intelligenti, degli assedi totali, della fame usata come arma, delle deportazioni di massa.
La definizione contenuta nella Convenzione è precisa e non lascia spazio a fraintendimenti: all’Articolo II si legge che per genocidio si intende “qualsiasi atto commesso con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”.
Segue poi un elenco che include,
- alla lettera (a), “uccisione di membri del gruppo”
- alla lettera (b) “lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo”
- alla lettera (c) “sottomissione intenzionale del gruppo a condizioni di vita tali da comportarne la distruzione fisica totale o parziale”
- alla lettera (d) “misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo”
- alla lettera (e) “trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro”.
Ed è proprio scorrendo questa lista che appare evidente come le politiche del governo israeliano di Benjamin Netanyahu nei confronti della popolazione palestinese rientrino pienamente in questa definizione: le uccisioni di massa sono quotidiane, i bombardamenti hanno colpito scuole, ospedali, moschee, mercati, campi profughi, generando decine di migliaia di vittime civili, dunque rispondono alla lettera (a); i danni psichici sono incalcolabili, con un’intera generazione di bambini condannata al trauma, alla perdita dei genitori, alla vita sotto le macerie, ed è difficile negare che ciò rientri nella lettera (b); le condizioni di vita imposte sono insostenibili, con acqua, cibo, elettricità e medicine tagliati deliberatamente per affamare e fiaccare la popolazione, e questo corrisponde perfettamente alla lettera (c); il sistema sanitario è distrutto, impedendo alle donne di partorire in sicurezza, alle famiglie di curare i neonati, trasformando la maternità in un percorso di morte, e questo rappresenta un caso evidente della lettera (d); e poi c’è il capitolo oscuro dei bambini trasferiti, dei piccoli palestinesi sottratti alle famiglie e spostati in Israele, un’ombra che rievoca altre pagine buie della storia e che corrisponde letteralmente alla lettera (e).
Tutto ciò configura, secondo la Convenzione, genocidio, non importa se manchi il progetto burocratico nazista, non importa se non ci sono campi di sterminio costruiti ad hoc, non importa se la tecnologia è diversa. L’essenza è la stessa: la distruzione intenzionale, in tutto o in parte, di un popolo.
Ed è qui che emerge la contraddizione: Edith Bruck, nel condannare le stragi israeliane, compie un atto di coraggio morale che molti altri testimoni della Shoah non hanno avuto, spesso chiusi in un silenzio complice o addirittura schierati a difesa dello Stato ebraico in nome di una memoria trasformata in scudo ideologico.
Ma allo stesso tempo, nel negare la parola genocidio a Gaza, cade nella trappola dell’eccezionalismo, riproduce quella gerarchia della sofferenza che la Convenzione del 1948 voleva superare, rischia di depotenziare lo strumento giuridico che era stato creato proprio per fermare le catastrofi del presente.
La Shoah è unica, certo, irripetibile nel suo contesto, nelle sue modalità, nel suo grado di pianificazione, ma il genocidio non è sinonimo di Shoah: è una categoria più ampia, che include anche Ruanda, Armenia, Bosnia, Cambogia, e che oggi, purtroppo, deve includere Gaza.
Insistere sul contrario significa, di fatto, tradire lo spirito stesso della memoria, che non è quella di costruire un monumento intoccabile al passato, ma di usare l’orrore vissuto come monito per impedire che si ripeta. Dire che chiamare genocidio Gaza significa banalizzare la Shoah è come dire che riconoscere l’ecatombe del Ruanda o di Srebrenica avrebbe sminuito Auschwitz: un ragionamento che non regge e che rischia di diventare pericoloso, perché consegna alle vittime di oggi una condanna al silenzio e alla irrilevanza. Se la parola genocidio viene sequestrata dal passato e resa inutilizzabile nel presente, allora diventa un guscio vuoto, un feticcio linguistico senza efficacia politica.
Ecco perché la posizione di Edith Bruck, pur rispettabile e umanamente comprensibile, deve essere discussa criticamente: non per mancare di rispetto a chi ha sofferto l’inferno, ma per difendere la funzione viva della memoria, quella che guarda al futuro e non solo al passato.
Gaza non è Auschwitz, nessuno pretende che lo sia, ma Gaza è un genocidio secondo la legge internazionale, e rifiutare di chiamarlo tale significa togliere voce alle vittime, indebolire la possibilità di fermare il massacro, svuotare di senso la stessa Convenzione del 1948.
È giusto e necessario condannare Netanyahu e il suo governo, ma non basta: bisogna avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome, perché le parole non sono mai neutre, sono armi, strumenti, chiavi per aprire o chiudere possibilità. Difendere la parola genocidio come se fosse proprietà esclusiva della Shoah significa, paradossalmente, negare il lascito stesso della Shoah, che avrebbe dovuto insegnarci non la competizione delle vittime ma la solidarietà universale contro ogni sterminio. Oggi, a Gaza, assistiamo a un popolo privato di ogni diritto, confinato, assediato, bombardato, affamato, e se questo non è genocidio, allora il termine ha perso senso.
È qui che filosofia, diritto e memoria si incontrano e si scontrano, ed è qui che il dovere di chi scrive e di chi testimonia diventa quello di non cedere alla retorica del paragone ma di guardare alle vite spezzate, ai corpi straziati, ai bambini senza futuro.
Edith Bruck resta una voce necessaria, e averne di più come lei sarebbe un bene prezioso, ma la sua posizione dimostra anche quanto sia difficile, per chi ha visto l’orrore, accettare che l’orrore si ripeta in forme nuove.
Eppure è proprio questo il compito che ci spetta: non difendere un primato del dolore, ma impedire che il dolore continui a moltiplicarsi.




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