mercoledì 24 settembre 2025

Looking back 9: Husker Du - Zen Arcade (1984)


''We’re Hüsker Dü, and we’re here to make a mess of your heads.''
(Bob Mould, 1984)

Ci sono album che cambiano il corso della musica senza che il mondo se ne accorga subito. Dischi che non si piegano alle regole del mercato, né alle leggi non scritte del suono dominante. *Zen Arcade*, pubblicato nel luglio del 1984 dagli Hüsker Dü, è uno di questi. Un doppio LP concepito da un trio punk del Minnesota, con una furia creativa che sconfina nell’epica e una tensione emotiva che sfiora il collasso nervoso. È un’opera ambiziosa, visionaria, brutale e lirica allo stesso tempo. Ed è, a tutti gli effetti, uno dei dischi più importanti degli anni Ottanta. Non solo per la scena hardcore americana da cui emerge, ma per il rock nel suo insieme.

Per comprendere Zen Arcade, occorre partire dalla band che l’ha generato. Gli Hüsker Dü si formano a Saint Paul, Minnesota, nel 1979. Il nome è preso da un gioco da tavolo scandinavo – significa “ti ricordi?” – ma diventa presto sinonimo di un’energia sonora feroce e inarrestabile.
Il trio è composto da Bob Mould (voce e chitarra), Grant Hart (voce e batteria) e Greg Norton (basso e baffi iconici). 
Mould è il cervello e la lama affilata, Hart il cuore pulsante e l’anima tormentata, Norton la spina dorsale silenziosa ma solida.

da dx: Bob Mould, Grant Hart, Greg Norton

Iniziano come gruppo hardcore, influenzati da Black Flag, Dead Kennedys, Germs. Ma, sin dai primi EP (Land Speed Record, 1981; Everything Falls Apart, 1983), dimostrano una fame espressiva fuori scala. 
Melodie pop incastonate in muri di chitarra distorta, testi cupi e personali, ritmiche frenetiche ma mai banali. 
In breve: gli Hüsker Dü non vogliono solo gridare, vogliono raccontare.
Nel 1984 gli Hüsker Dü sono pronti per qualcosa di più. 
In un momento storico in cui l’hardcore è ancora ancorato alla formula dei 90 secondi, loro pianificano un doppio concept album con ben 23 brani che raccontano la storia di un giovane in fuga da una vita di abusi e alienazione.
Registrato in 45 ore presso i Total Access Studios in California, Zen Arcade è il risultato di una sessione febbrile in cui la band suona quasi tutto in presa diretta, con pochissime sovraincisioni. È prodotto da Spot (lo storico produttore dei Black Flag) e dalla band stessa. Il risultato è un’opera monumentale: selvaggia, scomposta, impura, eppure potentissima.
Il protagonista dell’album – un giovane scappato di casa – si lancia nel mondo in cerca di senso, amore e redenzione. Ma alla fine scopre che ''it was all a dream and things are not the way they seem''
È un viaggio zen, sì, ma più vicino a un trip lisergico in una metropoli industriale americana che alla serenità del Nirvana.
Analizzare Zen Arcade significa immergersi in una varietà stilistica che all'epoca sorprese non poco in quanto pubblicato da un’etichetta punk/hardcore, la leggendaria SST Records. 
L'album si apre con "Something I Learned Today", che mette subito in chiaro il tono: riff violento, batteria impazzita, voce urlata ma intelligente. ''I don’t belong here / I never really tried / I just went along with all the rest that never really tried.''
Poi arriva "Broken Home, Broken Heart", scritta da Grant Hart, più melodica ma altrettanto devastante. La voce di Grant è meno ruvida di quella di Mould, più tragica, più emotiva. Ed è questo alternarsi di sensibilità che dà al disco un respiro drammatico raro nel punk.
"Never Talking to You Again" è un brano acustico, quasi folk, con un testo secco: ''There are lots of things I could do / I could turn my back and just walk away.'' 
Sembra un pezzo imbastardito dei Violent Femmes, e apre a un mondo sonoro sino a quel momento impensabile per la scena hardcore.

C’è spazio per la furia pura di "Chartered Trips", la straziante "Pink Turns to Blue", uno dei pezzi più amati e melodici, dove la dipendenza e la morte si tingono di bellezza pop (“Her heart has turned to ice / There’s frost in every kiss”). Fino alla dissonanza rumorista di "Reoccurring Dreams", 14 minuti di psichedelia noise che chiude l’album con un climax straniante.
Ogni traccia ha un'identità forte, come se fosse parte di un collage schizofrenico: punk, garage, psichedelia, piano minimalista, feedback, urla, sussurri. Una colonna sonora dell’implosione di un’anima.

Zen Arcade è un disco che aprì porte, anche se nessuno ne riconobbe subito il valore. Nel 1984, il rock mainstream era dominato da Van Halen, Bruce Springsteen e Prince. L’hardcore era relegato a club sotterranei. Gli Hüsker Dü, con questo album, mostrarono che la forma può essere malleabile, che il punk può raccontare storie complesse, che si può essere feroci e vulnerabili allo stesso tempo.
Nel giro di pochi anni, questa lezione verrà raccolta da tutta una generazione. I Pixies, i Sonic Youth, i Dinosaur Jr., e infine i Nirvana, sono debitori diretti degli Hüsker Dü. 
Kurt Cobain dirà di essere stato influenzato dal modo in cui la band sapeva unire il rumore alla melodia. Nevermind, in fondo, è figlio legittimo di Zen Arcade: un disco abrasivo che cerca (e trova) una bellezza disperata nel caos.

Dietro il genio di Zen Arcade c’è anche una tensione interna devastante. Bob Mould e Grant Hart sono due poli opposti che si attraggono e si respingono. Mould è razionale, controllato, rigoroso. Hart è emotivo, impulsivo, tossico. 
E proprio da questa frizione nasce la magia.
Le canzoni sono spesso scritte individualmente, ma sempre filtrate attraverso il suono collettivo. I brani di Hart sono più pop e introspettivi, quelli di Mould più duri e ossessivi. Entrambi scrivono testi profondi, talvolta criptici, sempre sinceri. La dualità Hart-Mould è simile a quella Lennon-McCartney, ma con la differenza che qui non c’è mai stata vera amicizia. Solo rispetto. E competizione.

Dopo Zen Arcade, gli Hüsker Dü realizzeranno altri dischi fondamentali: New Day Rising (1985), Flip Your Wig (1985), Candy Apple Grey (1986, il loro primo su major) e Warehouse: Songs and Stories (1987). 
Ma la tensione tra i due frontman cresce, alimentata da problemi di droga (Hart), alcool (Mould) e stress da tour. 
Nel 1988 la band si scioglie in modo brutale.

Dopo la fine degli Hüsker Dü, Bob Mould forma i Sugar, pubblica dischi solisti, scrive un’autobiografia toccante (See a Little Light, 2011), e diventa una figura rispettata nella scena alternative. 
Grant Hart, meno fortunato, incide album da solista più irregolari, vive una vita difficile, muore nel 2017 a 56 anni per un tumore. 
Greg Norton si ritira quasi completamente dalla scena musicale per dedicarsi alla ristorazione, salvo tornare di recente con una nuova band.
Eppure, nonostante il relativo oblio in cui è caduto per il grande pubblico, Zen Arcade continua a essere una pietra miliare. Nel 2003, Rolling Stone lo inserisce nella lista dei 500 album più importanti di sempre. Pitchfork, Mojo, The Guardian e decine di altri media continuano a citarlo come uno degli album fondamentali per capire l’evoluzione del rock indipendente.

In un’epoca in cui la musica è caratterizzata da produzioni di dubbio valore, Zen Arcade rimane una lezione di libertà espressiva, un disco che rifiuta le regole, che osa, che scommette tutto sulla sincerità. È una dichiarazione di guerra al conformismo, alla superficialità, alla musica usa-e-getta.
Il ragazzo protagonista del concept album è il riflesso di ogni adolescente alienato, di ogni outsider che cerca un senso in un mondo disumano. E la risposta, paradossalmente, sta nella confusione, nell’urlo, nel rumore: perché anche quello è una forma di bellezza. Una bellezza imperfetta, scorticata, ma vera.


Zen Arcade è una cattedrale costruita con le pietre del punk, ma che punta verso l’alto, verso il cielo. È un’opera che ha lo stesso valore culturale di The Wall dei Pink Floyd o di Double Nickels on the Dime dei Minutemen. 
Ma a differenza di altri capolavori, non ha mai avuto una vera celebrazione mainstream. 
È rimasto un segreto per appassionati, un oggetto di culto.
Eppure, chi lo ascolta davvero, oggi come allora, non può uscirne indenne. 
Perché dentro c’è rabbia, ma anche tenerezza. C’è distruzione, ma anche desiderio di rinascita. E soprattutto c’è un senso di urgenza che manca alla maggior parte della musica contemporanea. 
Gli Hüsker Dü non volevano solo fare un disco. 
Volevano cambiare il mondo. 
Anche solo per un’ora e dieci minuti.
E ci sono riusciti.

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