lunedì 22 settembre 2025

Warfare: Guerra senza eroi



WARFARE – TEMPO DI GUERRA è il titolo del nuovo, destabilizzante film di Alex Garland, un progetto che segna un radicale cambio di passo rispetto al suo predecessore, Civil War
Se quest’ultimo era una distopia politica che usava la guerra civile come metafora per la frammentazione ideologica degli Stati Uniti, Warfare è un’immersione brutale nella realtà della guerra, basato su eventi realmente accaduti durante il conflitto in Iraq, più precisamente a Ramadi il 19 novembre 2006. 
Scritto e diretto in collaborazione con Ray Mendoza, veterano dei Navy Seal e consulente militare già coinvolto in Civil War, il film non racconta una storia nel senso tradizionale del termine. Non ci sono backstory, sviluppo psicologico dei personaggi o parabole morali. 
C’è solo un evento, uno spazio chiuso, un gruppo di soldati americani e il nemico invisibile che incombe da fuori, in una tensione crescente che esplode in una sequenza di fuoco e morte. 
La scelta di Garland è radicale: abbandonare qualsiasi costruzione narrativa e consegnare allo spettatore novantacinque minuti in tempo reale, senza fronzoli né concessioni al cinema spettacolare. Ogni scelta tecnica, dai piani sequenza lunghissimi alla fotografia claustrofobica, passando per l’uso quasi assente di musica e l’inquietante lavoro sul suono, è tesa a riprodurre non una storia, ma un’esperienza sensoriale e corporea. 
L’obiettivo non è comprendere la guerra, ma viverla per quello che è: caos, frustrazione, terrore, disorientamento. 
I soldati non sono eroi, né vittime, né carnefici: sono esseri umani immersi in un ambiente in cui il senso si dissolve. Le loro voci si sovrappongono, i dialoghi sono spezzati, tecnici, ridotti all’essenziale. La macchina da presa si muove con loro, trema, respira, suda. Il realismo è tale che la linea tra documentario e finzione sembra dissolversi. 
Non c’è pathos né epica. 
Solo presenza. In questo senso Warfare è un film profondamente politico, pur evitando ogni commento esplicito sulla guerra in Iraq. Perché proprio l’assenza di giudizio è già un giudizio, ed è uno dei più duri: mostrare la guerra nella sua essenza disumana, senza glorificazioni, senza demonizzazioni, senza l’illusione che si possa uscirne puliti.


È anche, inevitabilmente, un film problematico. Non dà voce alla popolazione irachena, non mostra il nemico, che resta una minaccia senza volto. È una scelta consapevole, che riproduce la percezione soggettiva dei soldati americani sul campo. Ma resta una scelta che limita la possibilità di comprensione del contesto storico e politico, e rischia, come alcuni critici hanno notato, di perpetuare una visione unilaterale del conflitto. 
Tuttavia, sarebbe ingenuo accusare Garland di propaganda. 
Il suo intento è chiaramente quello opposto: demolire la retorica della guerra come spettacolo, erodere l’estetica bellica tradizionale, portare il cinema nel territorio del trauma. Il punto di vista è quello interno, nervoso, privo di razionalità strategica. È un’esperienza che lascia senza fiato, perché rinuncia alla distanza critica e si fa corpo essa stessa. 
Il confronto con Civil War è inevitabile. Se quel film era un’allegoria ampia, corale, un road movie apocalittico attraversato da riflessioni sul giornalismo, sulla democrazia e sul futuro degli Stati Uniti, Warfare è il suo opposto. 
Là si viaggiava per il continente alla ricerca di senso; qui si resta chiusi in una casa per sopravvivere. Là si costruivano personaggi archetipici; qui i volti sono anonimi, le identità sfumano nella collettività. 
Là si rifletteva; qui si reagisce. 
Eppure, a legarli è la stessa ossessione per il collasso della civiltà, per il punto di rottura oltre il quale il linguaggio si spezza e resta solo il corpo. 
Laddove Civil War mostrava la decomposizione morale di una nazione attraverso il filtro della rappresentazione mediatica, Warfare ne mostra l’emanazione più diretta: il soldato sul campo. 
C’è una coerenza sotterranea in questo passaggio: Garland smette di filmare chi osserva la guerra e filma chi la vive. 
Ne cancella ogni mediazione. 
Warfare è forse il punto più estremo della sua ricerca artistica: un cinema che non racconta, ma mette il pubblico nella condizione di sentire. 


L’accoglienza della critica è stata in gran parte entusiasta. Su Rotten Tomatoes il film ha raggiunto il 92% di approvazione, con molti recensori che lo hanno definito una delle rappresentazioni più autentiche e devastanti del conflitto armato mai portate sullo schermo. C’è chi lo ha accostato a The Hurt Locker, chi a Salvate il soldato Ryan o a Black Hawk Down, ma la verità è che Warfare è un oggetto unico: meno spettacolare, più essenziale, più silenziosamente devastante. 
Naturalmente non mancano le critiche. Alcuni osservano che l’estrema adesione al punto di vista americano rischia di omettere le responsabilità geopolitiche e le conseguenze sui civili. Altri notano che l’assenza di una vera struttura narrativa rende il film inaccessibile o alienante per il grande pubblico. Ma questi limiti sono anche la sua forza. 
Warfare non vuole piacere. 
Vuole ferire. 
Vuole turbare. 
Vuole far capire che la guerra non è una storia: è un’interruzione brutale della storia. 
Anche tecnicamente il film è un piccolo prodigio. Il lavoro sul sonoro è probabilmente tra i più sofisticati mai realizzati: esplosioni ovattate, silenzi angoscianti, suoni metallici che tagliano come lame. Ogni esplosione sembra scuotere la sala, ogni sparo è un colpo al torace. La fotografia, firmata da David J. Thompson, costruisce spazi chiusi, notturni, saturi di tensione. L’illuminazione minima, spesso proveniente solo da torce o riflessi, crea un’atmosfera che sembra uscita da un incubo. L’assenza di colonna sonora contribuisce a mantenere l’immersione costante. 
Si respira con i soldati. 
Si teme con loro. 
Si precipita insieme a loro. 
I protagonisti, volutamente non caratterizzati, sono interpretati da un cast di attori poco noti e da ex militari. Non c’è spazio per l’eroismo individuale. Non ci sono battute memorabili. Non ci sono monologhi. Solo ordini sussurrati, grida di dolore, frammenti di comunicazione spezzata. 
In Warfare non c’è catarsi. 
Solo la lenta e crudele consapevolezza che nulla si risolve, nulla si conquista, nulla si comprende. 
Si entra vivi e si esce feriti, o peggio. 


È un cinema del disincanto, che si colloca in netta opposizione rispetto a quello di stampo patriottico o persino umanistico. 
Dove altri film cercavano di trovare l’umano nella guerra, Warfare cerca l’inumano nel cuore dell’uomo. Non perché disprezzi l’umanità, ma perché sa che, in certe condizioni, essa si riduce a un istinto, a una soglia percettiva, a un riflesso. 
In conclusione, Warfare – Tempo di guerra è un’opera necessaria proprio nella sua scomodità. 
Un film che rifiuta la narrazione per farsi esperienza, che abbandona la morale per affondare nella carne, che rinuncia al racconto per mostrarci il silenzio e il fragore della violenza pura. Un’opera gemella ma contraria a Civil War, che ne condivide la visione cupa del mondo contemporaneo ma ne rovescia totalmente la forma. 
Se Civil War era uno specchio rotto dell’America, Warfare è una ferita aperta. 
Un cinema che non consola, non spiega, non assolve. Ma che resta impresso come una cicatrice sulla pelle di chi lo guarda. Una sfida radicale al nostro modo di intendere il cinema di guerra. 
E forse anche il cinema tout court.

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