venerdì 19 settembre 2025

The River, Nebraska, The Ghost of Tom Joad: l'altra America di Bruce Springsteen


Ci sono due Americhe che da sempre convivono senza incontrarsi davvero, due anime che si muovono come correnti contrapposte nello stesso grande fiume. Da una parte l’America scintillante del successo, del sogno a stelle e strisce, dei grattacieli e dei sorrisi pubblicitari, l’America che ostenta la ricchezza come segno di virtù e che fonda la propria narrazione sul mito dell’uomo che si fa da sé. Insomma, l'America di Donald Trump.
E poi c'è un’America nascosta, marginale, fatta di lavoratori sfruttati, famiglie spezzate, giovani che vedono sfumare le proprie speranze, paesi dimenticati, frontiere che diventano gabbie e deserti attraversati da fantasmi. 
È l’America che non appare nelle copertine patinate e che non trova voce nei discorsi politici. 
Bruce Springsteen, fin dagli anni Settanta, ha scelto di raccontare questa seconda America, di dare dignità narrativa a chi ne è privo, di cantare le storie dei vinti, degli emarginati, di coloro che restano ai margini del grande banchetto del capitalismo. In tre album fondamentali – The River (1980), Nebraska (1982) e The Ghost of Tom Joad (1995) – ha costruito una vera e propria epopea della working class e degli esclusi, un racconto musicale che dialoga direttamente con la tradizione letteraria americana di Steinbeck, Faulkner, Sherwood Anderson, Flannery O’Connor e Raymond Carver, contrapponendosi alla retorica dell’America vincente incarnata decenni dopo da Donald Trump.
Quando The River vide la luce, nel 1980, l’America era alla vigilia dell’era reaganiana. Dopo il trauma della guerra in Vietnam e la ferita del Watergate, il Paese cercava una nuova promessa, un rilancio che avrebbe preso la forma del trionfo neoliberista. Ma Springsteen, con quell’album doppio, mostrava già le crepe che attraversavano la società. Le sue canzoni raccontavano la disoccupazione che divora le prospettive, i matrimoni che diventano gabbie, le famiglie segnate da incomprensioni insanabili, i giovani che fuggono in auto rubate o che restano incatenati a un lavoro malpagato.
The River, la canzone che dà il titolo all’album, è una ballata che sembra uscita dalle pagine di Steinbeck: due ragazzi si sposano troppo presto, costretti dalle circostanze, e il fiume della loro giovinezza diventa un ricordo prosciugato, un luogo dove la speranza non abita più. 
È la stessa malinconia che attraversa le campagne del Sud di Faulkner, con le sue famiglie decadute, i padri e i figli divisi da un silenzio senza rimedio. In Independence Day, il conflitto generazionale si consuma tra incomprensioni e addii senza ritorno, mentre in Stolen Car la fuga disperata di un uomo diventa metafora di una vita che non ha più un centro. Non c’è retorica, non c’è celebrazione, solo la cronaca poetica di una vita ordinaria e ferita. Springsteen compie qui un gesto politico, anche se non lo proclama: mette al centro della sua narrazione chi non ha voce, chi resta invisibile. 
È la stessa scelta etica che compiono gli scrittori del realismo sociale, che mostrano il volto quotidiano dell’infelicità senza travestirlo da successo.


Due anni dopo, con Nebraska, il quadro diventa ancora più radicale. 
Registrato su un quattro piste nella cucina di casa, con voce e chitarra ridotte all’osso, l’album è un’immersione nell’oscurità morale dell’America. Non più soltanto matrimoni infelici e lavori che mancano, ma assassini, disperati, alienati. La title track racconta la vicenda di Charles Starkweather e Caril Ann Fugate, due giovani killer che negli anni Cinquanta insanguinarono il Midwest. Springsteen non cerca spiegazioni sociologiche, ma entra nella mente dei protagonisti, restituendo la banalità del male: ''Non c’è motivo, non c’è scusa, è solo la mia natura, credo''
Una frase che potrebbe appartenere a un racconto di Flannery O’Connor, con i suoi personaggi deformati da un destino assurdo e grottesco. In Atlantic City, invece, la promessa di riscatto passa per il gioco e la criminalità: ''Everything dies, baby, that’s a fact / But maybe everything that dies someday comes back''. È un fatalismo intriso di speranza disperata, che ricorda i protagonisti di Steinbeck che inseguono un sogno sempre più lontano. 
Ogni brano dell’album è un racconto breve: Highway Patrolman potrebbe stare in una raccolta di Carver, con la sua storia di fratelli divisi dalla legge e dall’amore, di lealtà impossibili e scelte dolorose. L’essenzialità del suono è parte integrante del messaggio: come se Springsteen fosse un cronista che annota senza filtri ciò che vede, rinunciando a ogni ornamento. 
È la colonna sonora di un’America che il mainstream non vuole riconoscere: il lato oscuro, l’ombra lunga del sogno.


Nel 1995, con The Ghost of Tom Joad, Springsteen torna a un tono acustico e scarno, ma in un’America diversa, segnata dalla globalizzazione e dalla fine della Guerra Fredda. Il titolo è un richiamo diretto a Steinbeck: Tom Joad, il protagonista di Furore, è il simbolo della resistenza degli oppressi, colui che promette di essere presente ovunque ci sia un uomo che lotta per vivere. Springsteen ne evoca lo spettro per raccontare le nuove marginalità degli anni Novanta: i migranti al confine, i senzatetto, gli operai espulsi dal sistema produttivo. 
In Youngstown, la voce narrante è quella di un operaio dell’Ohio che ha visto generazioni intere sacrificarsi nelle acciaierie, solo per ritrovarsi con la città morta e il lavoro scomparso. È un lamento epico che avrebbe potuto scriverlo Faulkner, un monologo interiore che si trasforma in atto d’accusa. In Balboa Park, i protagonisti sono ragazzi messicani che vivono di espedienti, vendendo droga a turisti statunitensi, fantasmi di una frontiera che divora le vite. 
In The Line, la storia di un agente della polizia di confine che si innamora di una migrante clandestina diventa metafora di un Paese spaccato tra la legge e l’empatia, tra il muro e l’accoglienza. 
Ogni canzone è un frammento di quella che Steinbeck avrebbe chiamato “l’altra America”, quella che non trova spazio nei discorsi ufficiali ma che rappresenta la spina dorsale della nazione.
La scrittura di Springsteen è profondamente radicata nella tradizione letteraria americana. Steinbeck con Furore e Uomini e topi ha narrato la miseria e la dignità della working class; Faulkner ha scandagliato le ferite del Sud con una lingua allucinata e complessa; Flannery O’Connor ha mostrato il grottesco e il tragico che si annidano nel quotidiano; Sherwood Anderson ha colto la malinconia delle piccole città; Raymond Carver ha scolpito in poche frasi i silenzi e le solitudini della provincia. 
Springsteen prende questo patrimonio e lo trasforma in canzone, condensando in pochi versi ciò che la letteratura dispiega in interi capitoli. 
È un narratore sociale che, come i suoi predecessori, compie una scelta etica: dare voce a chi non ce l’ha.

Henry Fonda/Tom Joad in "Furore" di John Ford (1940)

Questa scelta lo avvicina anche alla tradizione dei grandi cantautori popolari americani. Woody Guthrie, negli anni Trenta e Quaranta, aveva già cantato i migranti, i lavoratori sfruttati, i diseredati della Grande Depressione. La sua chitarra portava la scritta “This machine kills fascists”, a ricordare che la musica non è solo intrattenimento ma anche arma di lotta. Pete Seeger, con le sue ballate folk, aveva ereditato e diffuso quello spirito, trasformando il canto in strumento di resistenza collettiva. Bob Dylan, negli anni Sessanta, aveva dato voce ai movimenti per i diritti civili e contro la guerra, scrivendo canzoni che erano reportage poetici della società americana. 
Springsteen è l’erede naturale di questa tradizione, ma la rinnova: se Guthrie parlava delle Dust Bowl Ballads e Dylan dei tempi che stavano cambiando, lui racconta la disoccupazione della Rust Belt (con questo termine si indica la regione compresa tra i monti Appalachi settentrionali e i Grandi Laghi, un tempo cuore dell'industria pesante statunitense. L'espressione, traducibile con "cintura della ruggine", si riferisce a fenomeni come il declino economico, lo spopolamento e il decadimento urbano dovuti alla contrazione del settore industriale),  i matrimoni infranti della working class, i migranti dei confini. 
È il medesimo sguardo, adattato a un’epoca nuova. 
Come Guthrie e Dylan, Springsteen non cerca la retorica, ma la verità nuda delle storie individuali, sapendo che da quelle storie emerge un ritratto collettivo.
Il confronto con Donald Trump è inevitabile. L’ex presidente ha costruito la propria immagine pubblica su un’idea opposta: l’America dei vincenti, dei grattacieli, dei miliardari, delle limousine. “Make America Great Again” non era altro che la promessa di un ritorno a un’età dell’oro che non è mai esistita, un mito costruito sul consumo e sull’ostentazione. Trump ha incarnato l’elogio della ricchezza e la rimozione della povertà, la celebrazione di chi ce l’ha fatta e l’oblio di chi è rimasto indietro. In questo senso, gli album di Springsteen rappresentano l’antitesi perfetta della retorica trumpiana.


The River mostra come la vita della working class sia segnata da sacrifici e rinunce, non da trionfi. Nebraska svela come il sogno americano possa degenerare in alienazione e violenza. The Ghost of Tom Joad denuncia le nuove povertà e le nuove esclusioni prodotte dalla globalizzazione. Dove Trump vede solo vincitori, Springsteen racconta i perdenti. Dove il presidente inneggia al lusso, il cantautore canta le fabbriche chiuse e i confini desertici. Sono due visioni inconciliabili, due Americhe che si guardano e non si riconoscono.
In definitiva, The River, Nebraska e The Ghost of Tom Joad non sono soltanto dischi: sono cronache, racconti epici, atti di resistenza morale. Sono l’altra faccia dell’America, quella che non compare nei discorsi ufficiali ma che rappresenta la realtà quotidiana di milioni di persone. In un’epoca in cui la politica si riduce a slogan e la cultura dominante celebra solo il successo, Springsteen resta fedele alla sua missione di cantastorie, ricordando che esiste un’America invisibile che continua a resistere. È l’America di Tom Joad, che sopravvive in ogni operaio licenziato, in ogni migrante respinto, in ogni giovane che cerca senso ai margini. È l’America che resiste, che continua a cantare anche con voce spezzata, e che riaffiora ogni volta che una chitarra acustica comincia a raccontare una storia di vita vissuta.




Nessun commento:

Posta un commento

Magnifiche Ossessioni 7: Il Cacciatore (1978)

Il cacciatore di Michael Cimino è uno dei capolavori più potenti e intensi del cinema americano degli anni ’70. Uscito nel 1978, questo fil...

Archivio