mercoledì 8 ottobre 2025

Looking back 10: The Velvet Underground & Nico (1967)



 

Ci sono dischi che non si limitano a definire un genere, ma che diventano veri e propri detonatori culturali, capaci di aprire fratture irreparabili nel corso della storia della musica e dell’arte.
“The Velvet Underground & Nico”, uscito nel 1967, è uno di questi: non si tratta semplicemente di un album fondamentale per la nascita di nuove correnti musicali, ma di una dichiarazione di guerra al perbenismo, alla retorica della controcultura hippy, alle narrazioni dominanti che negli anni Sessanta provavano a incanalare la ribellione giovanile in forme di contestazione addomesticata. 
I Velvet Underground, sotto l’ala protettrice di Andy Warhol e accompagnati dalla voce glaciale di Nico, portarono invece in superficie la parte oscura, disturbante e marginale di New York, dando voce a ciò che non poteva e non doveva essere detto. In quelle tracce si sente la città sporca e spietata, i vicoli bui della 42esima strada, le siringhe sporche di sangue gettate nei vicoli, gli appartamenti sudici dell’East Village dove gli artisti vivevano con pochi soldi e tanta eroina, le performance estreme della Factory che mescolavano arte, sesso, scandalo e autodistruzione. 
L’album con la banana gialla disegnata da Warhol in copertina non è soltanto un capolavoro musicale, è un’opera d’arte totale che dialoga con la pittura pop, con la poesia beat, con il cinema underground di Jonas Mekas, con la fotografia cruda di Nan Goldin che arriverà qualche anno dopo, con le performance estreme di artisti come Carolee Schneemann. È un disco che appartiene più alla storia dell’arte contemporanea che a quella della musica leggera, perché ha scardinato confini e definizioni, anticipando linguaggi e immaginari che sarebbero diventati fondamentali decenni più tardi.


Nel 1967 l’America viveva l’apoteosi della Summer of Love, la stagione dei fiori nei capelli e dei colori psichedelici, del sogno collettivo di un’utopia pacifista che da San Francisco provava a diffondersi in tutto il mondo. I Jefferson Airplane cantavano la rivoluzione lisergica, i Grateful Dead improvvisavano lunghi viaggi sonori, i Beatles avevano appena inciso “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, manifesto gioioso e artificiale della nuova era. 
Ma dall’altra parte degli Stati Uniti, a New York, non c’era nessuna utopia: la città era sporca, violenta, dominata dalla disuguaglianza e dall’eroina che devastava interi quartieri. Qui non c’era spazio per la retorica del flower power, qui c’erano i corpi distrutti dei tossici, le prostitute transessuali di Times Square, i freaks della Factory che Warhol trasformava in star improvvisate. Lou Reed, John Cale, Sterling Morrison e Maureen Tucker non volevano illudere nessuno: le loro canzoni parlavano di eroina e di sesso sadomaso, di alienazione e di dipendenza, di vite vissute ai margini. Se a San Francisco si ballava a piedi scalzi nei parchi, a New York ci si iniettava eroina in stanze sporche illuminate da lampadine giallastre. 
L’America reale era quella dei Velvet, non quella dei sogni colorati dei figli dei fiori.
La forza del disco sta proprio nel suo essere radicale, sia nei testi che nelle scelte musicali. 
Prendiamo “Heroin”: sei minuti e mezzo in cui la musica si trasforma in esperienza fisica, con l’accelerazione improvvisa del ritmo che imita la scarica dell’eroina nel sangue e il rallentamento che restituisce la sensazione di abbandono totale. È un pezzo che non giudica, non condanna e non glorifica: racconta. 
E proprio per questo spaventò tutti. Mai prima di allora un gruppo rock aveva osato parlare così apertamente della droga, senza moralismi ma anche senza mitizzazione. Poi c’è “Venus in Furs”, basata sul romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, che introduce nell’universo rock il tema del sadomasochismo, con il violino di John Cale che strazia e graffia l’aria come una frusta. “I’ll Be Your Mirror” è invece l’altro lato della medaglia, una canzone di struggente delicatezza in cui la voce di Nico, fredda e distante, assume una purezza quasi ultraterrena. E come dimenticare “Sunday Morning”, che apre l’album con una melodia apparentemente innocente, ma con un testo che lascia intravedere paranoia e smarrimento. 
È questo continuo oscillare tra dolcezza e brutalità, tra melodia e rumore, tra racconto lirico e brutalità urbana, che rende l’album un’opera d’arte senza tempo.


Andy Warhol comprese il potenziale di quel suono ruvido e disturbante. Per lui i Velvet Underground erano perfetti per incarnare la sua idea di arte come spettacolo totale. Nella Factory gli happening mescolavano musica, proiezioni psichedeliche, performance sessuali e droga, e i Velvet ne erano la colonna sonora ideale. Warhol produsse l’album senza quasi mettere bocca sulla musica, ma garantì libertà totale e soprattutto mise a disposizione il suo nome e la sua influenza. Fu lui a volere Nico nella band: la modella tedesca, con la sua voce profonda e glaciale, introdusse un elemento straniante che rendeva il tutto ancora più spiazzante. 
La banana della copertina, con la scritta “peel slowly and see”, era già un’opera concettuale: un frutto banale trasformato in icona erotica e pop. Come sempre Warhol portava l’oggetto quotidiano su un piano artistico, e il disco diventava così un’installazione sonora visiva e performativa.
L’album, al momento della sua uscita, fu un clamoroso insuccesso commerciale: vendette pochissimo e venne ignorato dalla critica ufficiale, troppo impegnata a celebrare i fasti della psichedelia californiana. Ma in realtà il seme era stato piantato. Brian Eno lo disse anni dopo con una frase diventata proverbiale: “Poche persone comprarono quel disco, ma ognuna di esse fondò una band”. È vero: dai Velvet Underground nacquero il punk, la new wave, l’indie rock, l’art rock, il noise, l’industrial. Senza di loro non ci sarebbero stati i Sex Pistols, i Joy Division, i Sonic Youth, i Jesus and Mary Chain, i Radiohead più sperimentali. Persino il glam di Bowie e il krautrock tedesco devono qualcosa a quell’album oscuro e disturbante. L’idea che si potesse fare arte con strumenti rumorosi, con testi disturbanti, con atmosfere claustrofobiche, aprì possibilità infinite.
Non c’è stato gruppo alternativo negli ultimi cinquant’anni che non si sia misurato con l’eredità dei Velvet.
Ma non è solo la musica a contare: “The Velvet Underground & Nico” è la cronaca in diretta di un’epoca e di un luogo, la New York di metà anni Sessanta, crocevia di artisti, tossici, outsider, ribelli. La Factory di Warhol era un laboratorio che demoliva tutte le convenzioni: qui non c’era distinzione tra arte e vita, tra alto e basso, tra pittura e pubblicità, tra cinema e pornografia. Chiunque poteva diventare una star per cinque minuti, come Warhol aveva profetizzato. I Velvet suonavano in quel contesto, tra film underground e performance radicali, e la loro musica era il riflesso sonoro di quel caos creativo. New York era una città in bilico tra rovina e rinascita: il Village era ancora il regno dei poeti beat, mentre Harlem esplodeva nelle rivolte razziali, e nel frattempo i grattacieli continuavano a crescere come monumenti al capitalismo. In mezzo a tutto questo, i Velvet erano cronisti spietati dell’altro lato del sogno americano.


Il loro realismo brutale era il contraltare alla retorica del rock come liberazione collettiva. I Velvet non parlavano di pace, amore e fratellanza, ma di alienazione individuale, di sesso come dominio e sottomissione, di droga come anestesia del dolore, di solitudine e disperazione. Se i Beatles rappresentavano l’innocenza colorata, i Velvet erano il lato oscuro, l’incubo dietro l’utopia. Eppure proprio in questo stava la loro grandezza: nel dire la verità. La controcultura non era solo Woodstock, era anche la decadenza metropolitana, la consapevolezza che il sogno americano era una farsa. La loro musica era arte perché aveva il coraggio di guardare in faccia l’abisso.

Analizzando oggi “The Velvet Underground & Nico” non si può non notare quanto sia ancora attuale. In un’epoca in cui la musica sembra spesso ridotta a prodotto di consumo veloce, questo disco ricorda che l’arte può essere disturbante, può non piacere, può dividere. È un manifesto di indipendenza creativa, un atto di resistenza contro il conformismo, un esempio di come si possa creare un linguaggio nuovo mescolando generi e suggestioni diverse. C’è dentro il minimalismo di La Monte Young, il teatro della crudeltà di Artaud, il cinema underground newyorkese, la poesia maledetta europea. È un collage di influenze che diventa qualcosa di unico, proprio come accadeva nei loft dell’East Village dove pittori, poeti e musicisti si contaminavano a vicenda.
Ecco perché parlare di questo album significa parlare di arte totale. 
Non è solo un disco, è un documento di un’epoca e di un luogo, ma anche un’opera che ha superato il suo tempo e ha anticipato il futuro. È l’esempio di come la musica possa farsi avanguardia senza rinunciare alla canzone, di come il rock possa essere letteratura e teatro, poesia e performance. Ogni ascolto è un viaggio dentro la città notturna, dentro i suoi vicoli e le sue ossessioni, dentro l’arte che nasce dall’oscurità. È la prova che l’arte vera non consola, non rassicura, ma inquieta e costringe a guardare in faccia la realtà.
“The Velvet Underground & Nico” è ancora oggi un disco necessario. Non per la nostalgia del passato, ma perché continua a ricordarci che esiste sempre un altro lato della storia, quello che le narrazioni ufficiali non raccontano. 
Così come i Velvet mostrarono il lato oscuro degli anni Sessanta, oggi quel disco ci invita a diffidare delle facili illusioni, a non credere ai racconti confezionati, a cercare la verità nei margini, nei suoni disturbanti, nelle voci spezzate. 
In fondo, è questo il vero compito dell’arte: resistere al pensiero unico, aprire varchi nel buio, rendere udibile ciò che di solito viene silenziato.

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